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Diventare grandi, salutare i padri

dicembre 28, 2009

La discussione di Natale è stata quella sui cosiddetti monnezzoni: qui potete leggere, se avete pazienza, duecento commenti sul tema “fantastico sì, no, forse” e “fandom sì, no, forse”.

Le posizioni erano purtroppo prevedibili: da una parte alcuni critici che “riducono” la narrativa fantastica o a maghi-draghi-commercio o ai grandi padri italiani (Landolfi-Calvino), dopo i quali non esisterebbe più nulla. Dall’altra parte, chi di fantastico scrive, e sa che le cose vanno diversamente. Aggiungo solo che quel che mi ha lasciato davvero stupefatta è l’assoluta mancanza di curiosità nei confronti della produzione contemporanea e dei lettori della stessa: più volte si è ripetuto che “chi legge fantasy non legge altro”. Non si sa bene in base a quale fonte di informazione. Ma pazienza.

Perché  mi interessa fare un altro ragionamento.

E parto ancora una volta da King.
Io ho la bizzarra convinzione secondo la quale King, in moltissimi libri – se non proprio tutti – abbia parlato della scrittura fingendo di parlare d’altro. Ha parlato di crisi di ispirazione in Mucchio d’ossa e in Shining, per esempio. E ha parlato di rapporto con la critica. Soprattutto in  Misery.

Se ricordate, le cose vanno in questo modo: Paul Sheldon ha scritto un romanzo, al momento dell’incidente d’auto che lo consegna nelle mani della sua fan numero uno. Il suo primo romanzo mainstream dopo la serie di Misery che gli ha dato la fama. E’ fiero del suo lavoro. Si ripete, esultante, che ora la critica lo prenderà in considerazione. Però arriva Anne Wilkes. E Anne brucia il manoscritto, di cui non esiste copia. Non solo: lo costringe, a colpi di lama, a scrivere un nuovo romanzo su Misery. A resuscitarla. E quello sarà il romanzo più bello di Paul.

Dunque. Secondo me in ognuno di noi c’è un pochino di Paul Sheldon: in fondo abbiamo studiato sui banchi di scuola un’idea di letteratura che ha sempre posto il “genere”, e soprattutto il fantastico, in secondo piano.
Primo autosuggerimento: prenderne atto e dirsi che non è così. Dedicarsi a Misery e offrire una tazza di caffè ad Anne Wilkes ringraziandola per l’aiuto.

Però c’è una seconda questione, su cui sto riflettendo.

Una bella fetta della discussione era dedicata a Tolkien. A me è sembrato che addirittura si identificasse tutta la narrativa fantastica di oggi come una produzione che va PER INTERO nella scia tolkieniana. E dunque comprendesse elfi o qualcosa di simile, atmosfere medievali, cavalli in corsa, battaglie con orchi o derivati, foreste incantate.

E’ lo stesso principio per cui chi scrive horror, o dark fantasy, o gotico, non può che scrivere di vampiri. E non è così neanche in questo caso.

Ora, però, oltre ad esserci un problema di informazione, c’è anche una questione di modelli. Penso che chi scrive, oggi, anche chi comincia solo a formulare l’idea di un romanzo fantastico, dovrebbe disperatamente sforzarsi di evitare di camminare su sentieri già tracciati.

Dovrebbe armarsi di machete e aprire altri varchi.

La strada di Tolkien non è più percorribile: ancora una volta King, quando ha concepito la Torre Nera, lo ha detto a chiare lettere: sono un figlio del Signore degli anelli ma non posso percorrere la stessa strada.

Allo stesso modo, siamo figli e figlie di Stoker e di Anne Rice ma dobbiamo andare avanti. Salutare i genitori e incamminarci su luoghi che i genitori non conoscono.

Credo che sia importante.

Qui, GL su certi padri e certi figli: da leggere!