Una delle scrittrici che amo, Antonia Byatt, ha scritto un articolo per Times che Repubblica riporta parzialmente questa mattina. Parla di sogni. Di come chi scrive prenda ispirazione dai sogni o ne attribuisca ai propri personaggi (e di come si faccia a raccontare il sogno di un personaggio). Argomento che naturalmente mi è caro, dal momento che di sogno ho sempre parlato, che Lavinia nasce da un sogno e che stanotte ho sognato di dover morire e risorgere dopo tre giorni (non mi sto montando la testa, sto leggendo “Redenzione”). Il passaggio più bello dell’articolo è questo:
“Freud è molto interessante per quelli che egli definisce Traüme von Oben, sogni dall´alto, “grandi sogni”. Si tratta di sogni che racchiudono un significato, in modalità non così lontane dalle visioni oniriche medievali inventate. Il 10 novembre 1619 Cartesio ebbe tre sogni che a suo dire cambiarono la sua vita. Nel primo, pur facendo di tutto per entrare in una chiesa, era respinto indietro da terribili e dolorose folate di vento. Nel secondo si trovava in una stanza piena di lampi e scintille luminose. Nel terzo gli era proposto di scegliere tra due libri: il primo era un succinto dizionario, l´altro – gli fu riferito – conteneva invece tutta la poesia e la scienza della conoscenza. Egli riconobbe due citazioni latine – Est et non (“È e non è”) e Quod vitae sequabor iter (“Quale vita intendo seguire”). Egli preferì il volume di scienza e poesia in luogo del dizionario e affermò che quella visione confermò la sua scelta di dedicare la propria vita alla ricerca filosofica e matematica. Nel 1929 Maxime Leroy, che studiava Cartesio, inviò la descrizione di questi sogni a Freud, chiedendogli di interpretarli. Freud rispose che si trattava di sogni dall´alto, sogni che pensavano, nei quali l´interpretazione stessa dell´individuo sognante era quella giusta”.
Eppure, c’è chi sceglierebbe il dizionario.