Archive for giugno 2009

Dire bugie

giugno 30, 2009

“Proprio perché ci parla di cose inventate, che pertanto non si sono mai verificate nel mondo reale, una asserzione romanzesca dovrebbe sempre essere falsa. Eppure noi non accusiamo Omero o Cervantes di essere stati dei bugiardi”.
Ecco, sulla prima pagina di Repubblica c’è Umberto Eco. Meno male.

Ps. Patassa mi ha fatto una bella intervista e l’ha pubblicata sul suo blog.

Pensieri molesti

giugno 29, 2009

Ottovolante: un giorno su, l’altro giù. Giù dal letto, stamattina, con un pensiero molesto: non credo che vedrò mai Esbat citato in qualsivoglia quotidiano o giornale. Sono in ottima compagnia, è vero, però un po’ mi dispiace. E non per narcisismo: o non soltanto. E’ che esistono  lettori che non frequentano Internet e che non sapranno mai nulla di libri che non raccontano adolescenze dannate o crisi esistenziali o tutto quello che viene considerato” reale” e dunque appropriato ai romanzi.
Mi passa.

Sentirsi stupida dopo uno shampoo

giugno 28, 2009

Con una buona dormita alle spalle,  un messaggio via Facebook che mi ha portato l’umore alle stelle e i capelli ancora bagnati, mi sono riletta un articolo che mi ero messa da parte. In questi ultimi tempi, se trovo un intervento sulla scrittura, lo divoro. Ma non perchè mi senta parte di un gruppo o di una setta o di una qualsiasi cosa del genere: sono semplicemente diventata più curiosa delle opinioni degli altri su cosa sia scrivere e su come si fa.
Insomma, mentre mi era piaciuto tantissimo il testo di John Banville di qualche giorno fa, sempre su Repubblica ho trovato e ritagliato un articolo di Antonio Scurati, candidato allo Strega. Nell’articolo Scurati elenca i tre principi della narrativa di oggi. Che sarebbero questi qui:

“Esercitare un´intelligenza delle superfici (divenire superficiali per profondità; atterrirsi, come astronauti in ricognizione lunare, allineando l´occhio alla superficie desolata e scabra dell´immediato). Stabilire un rapporto di vicinato con il proprio qui e ora (non necessariamente di buon vicinato; si tratta, anzi, di una rivalità mimetica, di scendere sul suo terreno, rischiando risposte parzialmente isomorfe; di farsi sotto, come in una bagarre pugilistica, per piazzare il proprio colpo). Sapersi prigionieri di una bolla d´immanenza (e non più quella della concezione postmoderna del linguaggio come prigione di segni ma quella di un tempo senza vie d´uscita)”.

Allora. Per i primi cinque minuti mi sono sentita deficiente, perchè non ho assolutamente capito cosa volesse dire. Questa faccenda di sentirmi stupida mi capita molto spesso, davanti agli interventi degli scrittori sullo scrivere. Scrittori italiani. Io avrò anche la fissa di King, ma quando leggo le sue riflessioni sulla scrittura risuono come una campanella e mi dico “eh sì, è proprio questo”. Con gli italiani non mi succede praticamente mai: o forse sono sfortunata e leggo gli interventi sbagliati.
In questo caso, non capisco e forse neanche concordo: perchè se ho afferrato il concetto, lo scrittore dovrebbe fare finta di allinearsi con il mondo che ci circonda, anzi adottare il suo linguaggio per poi insinuarvi, stilla a stilla, la profondità della propria anima.
E i lettori? E la storia? E poi, ancora: il linguaggio non è forse al servizio di ciò che si racconta? Perchè, leggendo queste cose, ho la sensazione che ne sia invece la prigione?
Sbaglio io?
E perchè mi viene voglia di andare a caccia dell’ultimo numero di Bleach?

Preferisco l’altro Italo

giugno 26, 2009

Mi sono comprata il giornale, ho letto della morte di Michael Jackson, e la cosa mi ha fatto impressione, forse perchè a questo punto pensavo che sarebbe vissuto per sempre, bianco bianco e sempre più irreale.
Poi ho letto i temi di maturità, mi sono chiesta che ci facesse Alberoni insieme a Dante, Leopardi, Gozzano, Catullo (la traccia sull’amore), e ho ritrovato la mia bestiaccia nera nella traccia letteraria. Svevo, La coscienza di Zeno.
Ne ho sempre discusso molto su aNobii, perchè non ho mai capito perchè la scuola italiana abbia questa fissazione per Svevo, e sia, da quanto capisco, molto meno interessata a  Calvino (per non parlare di Landolfi).
E siccome parlo pro domo mea, penso che tutti quelli che frequentavano il fantastico non siano molto graditi dalle persone serie. Forse.

Ps. Se date uno sguardo alla sezione fanart, ho appena aggiunto lo Hyoutsuki di cosinonero!

Arrivi

giugno 25, 2009

Mi è arrivata una bellissima fan art, appena riesco la posto!
Ed è arrivato un articolo di Gamberetta, a cui vi rimando.

Sparire

giugno 24, 2009

Vediamo se riesco a spiegarmi meglio. Non è che non voglio che si parli della mia provenienza di fan writer. Anzi. Però, detto questo, vorrei che si parlasse di Esbat. Della storia e di come è raccontata: bella, brutta o mediocre che sia. Mi piacerebbe sparire e far posto a quello che ho scritto, senza che la lente deformante della mia persona (“Ehi, una nerd che scrive romanzi”) influisca sul testo. Così, mi sono tenuta da parte un articolo uscito ieri su Repubblica e ieri sera me lo sono copiato e salvato sul computer: è un intervento  di uno scrittore irlandese, John Banville, che non conoscevo ma che a questo punto voglio leggere, e dice questo.

“La campagna del ventesimo secolo per declassare lo scrittore da creatore a strumento, da padrone del linguaggio, come Oscar Wilde lo intese, a suo schiavo, fu fortemente osteggiata da molti critici e accademici, specialmente in Inghilterra, dove la teoria è criticata e i neo Giacobini della cultura francese godono di una considerazione che è un miscuglio di disprezzo, paura e risentito divertimento. Fu il silenzio degli innocenti, comunque, a essere notevole. La maggior parte degli scrittori – ovvero gli scrittori creativi, come veniamo chiamati – si sottrassero al dibattito. Come mai, perché non protestammo mentre Foucault e i suoi compari cercavano di mandarci al macello? Credo si trattasse del fatto che sentivamo, con fastidio, ma con un certo sollievo, che il nostro segreto era stato scoperto, che la nostra essenziale non-esistenza, la nostra inesistente essenza, era venuta alla luce.
Qualche anno fa la Rte, la rete televisiva nazionale irlandese, commissionò un documentario su di me e sui miei lavori, dando enfasi, dietro mia insistenza, all´opera. Il direttore del programma, anch´egli un auteur, era acuto e perspicace e il programma che ne derivò eccellente, meritandosi, a giusto titolo, molti consensi. La prima domanda che mi pose, il primo giorno di riprese, fu, «Chi è ?». Sullo schermo appaio esitante per un lungo istante prima di fornire quella che all´improvviso mi sembrò l´unica risposta possibile. «Beh, vede», risposi, «non c´è nessun John Banville». In quel momento non capii del tutto che cosa intendessi. Certamente, e voi potete vederlo, esiste un John Banville, ed è il povero forcuto essere umano che si alza al mattino, si veste, fa colazione, si avventura fuori nel mondo quotidiano, che ha opinioni e va a votare alle elezioni, che ama i suoi bambini e che un giorno morirà. Ma quel John Banville non è lo stesso il cui nome appare sul dorso dei suoi libri. Non si tratta del John Banville che sogna una storia e la popola di personaggi. Non è il John Banville che se ne sta tutto il giorno seduto alla scrivania a lavorare sulle parole. Quell´altro, misterioso, John Banville è, in un parola, invisibile.
Più avanti nel documentario Rte – il cui titolo, a ogni modo, e non in maniera insignificante, era Essere John Banville – c´è una divertente e illuminante sequenza di stregoneria tecnica che mi vede seduto alla scrivania, ipoteticamente immerso nel lavoro, mentre allo stesso tempo un altro me, identico a quello seduto, gira per lo studio intento a prendersi cura delle piante di casa con un innaffiatore. È una bella metafora e illustra in modo arguto una delle tematiche principali che io e il regista seguimmo per tutto il programma – lo stesso tema, ovviamente, che sto trattando qui oggi, cioè, il tema della duplicità dello scrittore.
Quando faccio letture in pubblico o partecipo a prestigiose manifestazioni come questa, e incontro faccia a faccia alcuni dei miei lettori, mi sembra di cogliere nei loro occhi il sorgere di uno sguardo di leggero disappunto, di insoddisfazione. È come se la persona per la quale erano venuti, nella speranza di incontrarla, non si fosse presentata. È come se il John Banville dinanzi a loro, quello che cerca di fare del suo meglio per essere non solo cortese, ma anche plausibile, non fosse, in qualche modo, il John Banville che pensavano di conoscere dalle pagine dei miei libri. E hanno ragione – non è la stessa persona. Quel John Banville, gli voglio dire, quello che scrive le storie che loro ammirano, esiste solo quando questo John Banville si siede alla mia scrivania ogni mattina e impugna la mia penna, e cessa di esistere quando, giunta la sera, poso la penna.
Che relazione esiste tra questi due, lo scrittore che è visibile davanti a voi adesso e l´altro che se ne sta invisibile accanto a me? Tutti sperimentiamo questo dualismo, o qualcosa di molto simile, quando alla sera ci sdraiamo a letto per dormire. Per un po´ l´occupante si gira e si rigira, mentre con la mente ripercorre gli avvenimenti della giornata, preoccupato per gli errori e i misfatti e celebrando i piccoli trionfi. In breve, comunque, si leva da lui l´ectoplasmico altro, quello sognante, che prende il controllo e parte per uno sfrenato giro di piacere notturno, fatto di sgommate lungo tornanti, immersioni a profondità impossibili, svolazzando anche per aria, a volte, mentre figure bizzarramente familiari lo salutano e si prendono gioco di lui, oppure si gettano sul suo cammino facendo capriole e piangendo. Poi arriva il mattino e il suono stridulo della sveglia; il dormiente si sveglia e la sua vampiresca versione notturna si rintana ancora una volta nella cripta, nell´attesa di un altro crepuscolo.
Quello che sogna, quello che scrive: sono cugini di primo grado se non, in realtà, fratelli gemelli. E ora, sebbene io non sia sicuro chi di noi stia parlando, Banville e io vi porgiamo il nostro evanescente saluto di congedo e diventiamo… invisibili”.

Pensierini

giugno 23, 2009

Penso a un mucchio di cose, mentre guardo il mio amuleto che arriva dal Giappone (grazie, Caska!) e lui guarda me, vicino alla tastiera del computer.
Penso che il mondo è sempre diverso da come lo si immagina, e che io vivo (vorrei vivere) troppo di picchi e poco di bonaccia, e che invece bisogna abituarsi anche  alla calma piatta per lavorare, per scrivere, per tutto, insomma.
Penso che per quanto io faccia per togliermi etichette di dosso, le avrò sempre, anche se di segno diverso rispetto a quelle che pensavo (è per dire che mi piacerebbe anche che Esbat fosse discusso per quel che è, e non solo perchè è o è stato una fan fiction).
Penso che forse chi scrive non ha una risorsa illimitata di storie dentro di sè.
Penso che mi piacerebbe imparare l’arte dell’autoincensamento. E poi  penso che non è vero, che mento, e non mi piacerebbe affatto.
Penso che vorrei essere più leggera, imparare a fare spallucce e andare avanti, senza sentirmi sempre schiacciata da cento tipi diversi di responsabilità (quale vuole degustare, signorina? Quella fondente, quella al latte, quella allo zafferano?).

Penso troppo, e scrivo poco.

Tanto per

giugno 22, 2009

“Uno dei servizi peggiori che potete fare alla vostra scrittura è pompare il vocabolario, cercare paroloni perché magari vi vergognate un po’ della semplicità del vostro parlare corrente. È come mettere il vestito da sera al cagnolino di casa. Il cane sarà imbarazzato e la persona che si è resa colpevole di questo atto di premeditata affettazione dovrebbe esserlo ancora di più”.

Stephen King, On writing

Ps. Così lo tengo a mente, eh.

Ordine e disordine

giugno 19, 2009

Sì, perchè le cose che fanno paura sono le anomalie. Mentre scrivevo Esbat, quel che spaventava me (non è detto che succeda altrettanto per chi legge, ovvio) era il lampo bianco che la Sensei credeva di aver visto nella sua stanza mentre distoglieva lo sguardo dalla finestra per andare in cucina. Un bagliore che non aveva  senso, in quel momento e in quel luogo. Un’altra cosa che mi ha fatto davvero paura (e che ho infilato in Tanit, come qualcuno sa) era la fontanella che starnutisce. Aria nei tubi, ma certo. Eppure mi ha fatto venire i brividi, quando l’ho sentita.
Una rosa (o una cyclette) che canta è più temibile di una porta che cigola.
Perchè siamo creature ordinate. E invece la vita non è ordinata. Questo non riesce a capire il mio Demone. Questo, naturalmente, scriveva King, in Misery:

“In un libro tutto si sarebbe svolto secondo i piani…ma la vita è sempre così fottutamente caotica! Che dire di un’esistenza in cui alcune delle conversazioni più delicate trovano il modo di svolgersi proprio quando tu hai un pazzesco bisogno di correre al cesso? Un’esistenza dove non ci sono nemmeno i capitoli? ”

Ps. Fantasy Magazine oggi parla di Esbat!

In poche parole

giugno 18, 2009

“C’è una cosa che Machen ha detto una volta e che io non ho mai più dimenticato: il vero male è quando una rosa comincia a cantare. Non sono sicuro di capire esattamente cosa intendesse dire, eppure la sensazione di quella frase mi appare così chiara”.
Stephen King (e chi altri?)

Neanche io, nel mio piccolissimo, comprendo la logica. Ma comprendo il significato. Soprattutto ora.