Archive for giugno 2010

Anita Sue?

giugno 30, 2010

Su aNobii si sta discutendo di personaggi femminili nel fantasy. Sì, a volte ritornano.  La figura di partenza è quella di Anita Blake, prototipo di inverosimiglianza. Mi viene in mente, per affinità, la Kay Scarpetta di Patricia Cornwell. Mi chiedo se sia proprio vero, però, che i personaggi femminili sono più complessi da delineare. Sicuramente, risulta meno semplice non cadere nello stereotipo. Anche perché, come verificherete, i lettori, anche i più affezionati, se ne accorgono.
(Ho finito Il canto di Kali, ma necessito di un post molto lungo. Arriverà. Che libro).

Dello scrivere

giugno 29, 2010

Non posso non riportare qui l’intervista a David Foster Wallace che Roberto Natalini ha lasciato come commento. Merita troppo!

Due domande tratte da un’intervsta a DFW di Laura Miller, “The Salon Interview: David Foster Wallace.” Salon 9 (1996).
Testo inglese: http://archive.salon.com/09/features/wallace1.html
D.: Cosa vuol dire essere un giovane scrittore oggi, nel senso di iniziare, farsi una carriera e cosi via?

R.: Personalmente, credo che sia veramente un momento eccellente. Alcuni tra i miei amici non sono d’accordo. E’ vero che oggi la narrativa e la poesia sono molto marginalizzate, Alcuni dei miei amici cadono nel vecchio errore di dire “Il pubblico è stupido. ll pubblico vuole soltanto continuare così. Poveri noi. siamo marginalizzati dalla TV, dal grande blabla ipnotico.” Puoi stare lì e tenerti questa posizione patetica. Ma naturalmente sono solo stupidaggini. Se una forma d’arte è marginalizzata è solo perché non riesce più a parlare alla gente. Una possibile ragione è che la gente a cui dovrebbe parlare è diventata troppo stupida per apprezzarla. Ma a me sembra troppo semplicistico.

Se tu, come scrittore, soccombi all’idea che il pubblico è troppo stupido, allora ci sono due pericoli. Il pericolo numero uno è l’avanguardia, dove decidi che stai scrivendo per gli altri scrittori. e non ti preoccupi di essere accessibile o influente. Ti preoccupi di essere strutturalmente e tecnicamente al livello più avanzato: involuto nel giusto modo, facendo gli appropriati riferimenti intertestuali, cercando di sembrare intelligente. Non curandoti se stai o no comunicando con un lettore che si interessa di quei sentimenti elementari, “di pancia”, che sono la ragione per cui noi tutti in realtà leggiamo. Dal lato opposto ci sono quei crassi, cinici, pezzi commerciali di narrativa che sono fatti con lo stampino – essenzialmente sono televisione su pagina — che manipolano il lettore, utilizzando un materiale grottescamente semplificato, ma così profondamente avvincente in un modo spesso infantile.

Quello che è buffo, è che io vedo questi due approcci che lottano l’uno contro l’altro, e che poi in realtà ottengono entrambi lo stesso risultato, che è il disinteresse per il lettore, e l’idea che l’attuale marginalizzazione della letteratura sia una colpa del lettore. Un progetto che credo sia più interessante da esplorare, è quello di scrivere testi che abbiano qualche cosa della ricchezza, della sfida e della difficoltà intellettuale ed emotiva delle opere dell’avanguardia letteraria, opere che obbligano il lettore a confrontarsi con le cose, piuttosto che ad ignorarle, ma anche fare in modo che questi testi siano anche piacevoli da leggere. Il lettore sente che qualcuno sta parlando proprio a lui, piuttosto che producendosi in un certo numero di pose.

Una parte di tutto ciò ha a che fare con il fatto di vivere in un mondo in cui c’è cosi tanto intrattenimento disponibile, vero intrattenimento, e con il cercare di immaginare come la narrativa possa evadere dai suoi territori in questo tipo di mondo. E allora puoi cercare di capire che cosa rende la narrativa magica in un modo che altri tipi di arte e di intrattenimento non sono. E allora cerchi di immaginare come la narrativa possa coinvolgere un lettore, la cui sensibilità si è formata principalmente sulla cultura pop(olare), senza far peggio della stessa macchina della cultura pop. Questo è incredibilmente difficile e disorientante e scoraggiante, ma è qualcosa di veramente significativo. C’è cosi tanto intrattenimento commerciale di massa, che è cosi buono e fatto bene, che non credo che nessun’altra generazione ci si possa essere confrontata. Questo è quello che vuol dire essere uno scrittore oggi. Penso che sia l’epoca migliore per essere vivi da sempre e anche probabilmente l’epoca migliore per essere uno scrittore. Non sono sicuro che sia l’epoca più facile

D.: Cosa crede che renda la narrativa magica in un modo unico?

R.: Oddio, questo potrebbe prenderci un giorno intero! Beh, la prima linea di attacco per questa domanda è questa solitudine esistenziale che esiste nel mondo reale. Io non so cosa tu stia pensando o come sei dentro di te e tu non sai come sono dentro di me. Con la narrativa credo che noi possiamo saltare sopra questo muro in un certo senso. Ma questo è solo il primo livello, perché l’idea di intimità mentale o emotiva con un personaggio è una delusione o meglio un artificio che è posto ad arte dallo scrittore. C’è però un altro livello in cui un pezzo di narrativa può diventare come una conversazione. C’è una relazione che si stabilisce tra il lettore e lo scrittore che è molto strana e molto complicata e difficile da spiegare. Per me un grande brano di narrativa può riuscire o meno a trascinarmi e farmi dimenticare che sto qui, seduto in poltrona. Ci sono opere commerciali che possono farlo, e una trama avvincente può farlo, ma questo non mi farà sentire una minore solitudine.
C’è però poi a volte una specie di “Ah-ha!” Qualcuno almeno per un momento, sente o vede qualche cosa nel mio stesso modo. Non sempre succede. Sono dei lampi o brevi fiammate, ma a me ogni tanto succede. Ma mi sento non più solo — intellettualmente, emotivamente, spiritualmente. Mi sento umano e non più in solitudine e in una profonda conversazione piena di significato e con un’altra coscienza in narrativa e in poesia, in un modo che non credo sia possibile con altre arti.

Kali

giugno 28, 2010

Era su una bancarella, e l’ho preso. Sono a tre quarti. E’ uno dei libri che mi ha colpito di più nella mia storia di lettrice. Fa male e fa paura. E’ Il canto di Kali di Dan Simmons. Finisco (oggi) e ci torno (domani).  Spaventoso, in ogni senso.

DFW

giugno 26, 2010

Per un certo periodo andava di moda citarlo, farne scivolare il nome, con noncuranza, nelle conversazioni colte. Parlo di David Foster Wallace. In un giorno di settembre di due anni fa, s’impiccò. Seguirono molte amare e a volte amene considerazioni sulla solitudine e la disperazione del genio.
Perchè ne parlo? Un po’ per invitarvi a leggerlo (Infinite Jest, intanto). Un po’ per usare le sue parole invece delle mie, che sono miliardi di volte più povere e meno efficaci. Wallace è stato definito uno scrittore ironico. Addirittura i necrologi ne celebrarono l‘ironia cupa.  Wallace, invece, era uno scrittore che per tutta la sua vita si è interrogato sulla sincerità e sulla responsabilità della scrittura. Non solo della scrittura professionale, vorrei dire. “Toccare il cuore del lettore” era il centro della sua vita. Toccarlo con sincerità era il suo imperativo. Riscoprire quella sincerità, chiamare le cose con il proprio nome, porre fine agli egotismi e ai narcisismi è, peraltro, uno degli imperativi del nostro tempo. Non solo per chi scrive.
Così, vi regalo un po’ di DFW. E’ uno scritto del 1993.  Segnare la data. Anni in cui era blasfemo sostenere quel che DFW sosteneva.

“Se ho un vero nemico, un patriarca contro cui effettuare il mio parricidio, sono probabilmente Barth e Coover e Burroughs, e perfino Nabokov e Pynchon. Perché, anche se la loro consapevolezza, la loro ironia e la loro anarchia avevano scopi validi, l’assorbimento della loro estetica nella cultura consumistica americana ha avuto conseguenze terribili per gli scrittori e per tutti gli altri. Il mio saggio sulla TV in realtà parla di quanto sia diventata velenosa l’ironia postmoderna. Lo vedi in David Letterman, in Gary Shandling e nel rap, ma lo vedi anche in quella merda di Rush Limbaugh, che potrebbe pure essere l’Anticristo. Lo vedi in T. C. Boyle e William Vollmann e Lorrie Moore. E’ più o meno tutto quel che c’è da vedere nel tuo compare Mark Leyner. Leyner e Limbaugh sono le torri gemelle dell’ironia postmoderna degli anni Novanta, il loro è un cinismo “hip”, un odio che strizza l’occhio e ti dà di gomito e finge che sia tutto uno scherzo.
L’ironia e il cinismo erano quel che ci voleva contro l’ipocrisia americana degli anni Cinquanta e Sessanta. La cosa grandiosa dell’ironia è che seziona ogni cosa e poi la guarda dall’alto per mostrarne le tare, le ipocrisie, le scopiazzature […] Il sarcasmo, la parodia, l’assurdo e l’ironia sono modi efficaci di smascherare la realtà e mostrarne la sgradevolezza, ma il problema è: una volta che abbiamo fatto saltare le regole dell’arte, e dopo che l’ironia ha svelato e diagnosticato le brutture del reale, a quel punto che facciamo? L’ironia è utile per sfatare le illusioni, ma in America le illusioni le abbiamo già sfatate e ri-sfatate […] L’ironia e il cinismo postmoderni sono ormai fini a se stessi, sono il parametro della sofisticatezza hip e dell’abilità letteraria. Pochi artisti osano parlare di altri modi di porsi per risolvere ciò che non va, perché temono di sembrare sentimentali e ingenui agli occhi degli ironisti stanchi di tutto. L’ironia è stata liberatoria, oggi è schiavizzante. In un saggio ho letto una bella frase, diceva che l’ironia è il canto dell’uccellino che ha imparato ad amare la propria gabbia. Non c’è dubbio che i primi postmodernisti e ironisti e anarchici e assurdisti abbiano prodotto cose egregie, ma il guizzo non si passa da una generazione all’altra come il testimone della staffetta, il guizzo è personale, idiosincratico […] Dai giorni di gloria del postmoderno abbiamo ereditato sarcasmo, cinismo, una posa annoiata maniaco-depressiva, sospetto nei confronti di ogni autorità, sospetto di ogni limite posto alle nostre azioni […] Devi capire che questa roba ha permeato la nostra cultura, è diventata il nostro linguaggio, ci siamo dentro a tal punto da non capire più che è solo una prospettiva, una tra le tante possibili. L’ironia postmoderna è diventata il nostro ambiente.
[…] Tutta l’attenzione e l’impegno e lo sforzo che come scrittore richiedi al lettore non possono essere a tuo vantaggio, devono essere a suo vantaggio […] Un’opera davvero grande nasce probabilmente da una volontà di svelarci, di aprirci a livello spirituale ed emotivo in un modo che rischia di farci provare davvero qualcosa nel farlo. Significa essere pronti a morire, in un certo senso, pur di riuscire a toccare il cuore del lettore”.

Squash

giugno 25, 2010

Ma nel mio piccolissimo, mi piacerebbe poter dire che Il gioco di Lavinia nasce con le stesse intenzioni de Le notti di Salem rispetto a Dracula. Una partita di squash letterario dove Il gioco di Lavinia è la palla e L’orrore di Dunwich il muro contro cui rimbalza.
Troppo, eh?

Posso, e ancora posso

giugno 24, 2010

I discorsi sul fantastico, ormai lo sapete, sono come il miele: mi piace infilare le dita nel barattolo come gli orsi golosi. Ordunque, con la mia copia di Danse Macabre alla mano, rilancio con un’altra affermazione di King. Che il medesimo definisce, non a torto, “azzardata”:

“Tutta la letteratura fantastica riguarda essenzialmente il concetto di potere; la grande letteratura fantastica racconta di persone che lo trovano a caro prezzo o che lo perdono tragicamente; la mediocre letteratura parla di chi ha il potere e non lo perde mai, anzi lo adopera. Quest’ultimo tipo di letteratura in genere piace alla gente che ha ben poco potere nella vita, e cerca di ottenerne una dose vicariamente, leggendo storie di barbari dai muscoli d’acciaio, le cui grandi imprese in battaglia sono eguagliate solo dai loro straordinari meriti a letto; in queste storie capita di incontrare un eroe di due metri e dieci che si apre la strada combattendo sulle scale di alabastro di un tempio in rovina, con una spada lampeggiante in mano e una bellezza poco vestita appoggiata al braccio libero. Questo tipo di letteratura, comunemente chiamata sword and sorcery dagli appassionati, non è il punto più basso della fantasy, ma esprime comunque un senso di volgarità. I racconti e i romanzi di spada e stregoneria sono racconti di potere per chi non ne ha”.

Il candidato tracci i confini del fantastico

giugno 23, 2010

In Danse Macabre, Stephen King dice una cosa importante – una fra le moltissime – sull’horror. Ovvero, che il medesimo ci insegna non a esorcizzare, bensì a esercitare quelle emozioni che vengono considerate disdicevoli, o comunque da tenere sotto controllo. Per King, in realtà, tutta la narrativa fantastica è questione di emozioni più che di singoli ingredienti o di definizioni. Ricordate ilsuo discorso su fantasy e fantascienza, sempre da Danse Macabre? Ieri sera ci rimuginavo su, quindi lo riposto:

“Questa faccenda della definizione è una trappola, e non mi viene in mente soggetto accademico più noioso. Come le discussioni infinite sulle scansioni del respiro nella poesia moderna, o l’invadenza di certa punteggiatura nel racconto breve, questa è una diatriba tipo quelle su quanti angeli possono stare sulla capocchia di uno spillo, ben poco interessanti a meno che i partecipanti alla discussione siano ubriachi o universitari, due livelli di incompetenza simili tra di loro. Mi esprimerò dicendo l’ovvio: tutti e due (fantasy e fantascienza, ndr) sono opere di immaginazione, e tutte e due cercano di creare mondi che non esistono, non possono esistere, o che ancora non possono esistere. C’è una differenza, naturalmente, ma potete segnare voi i confini, se volete, e se provate vi accorgerete che si tratta di confini ben difficili da tracciare”.

Ah, e l’horror? Per King la risposta è semplice: “il fantasy, o il fantastico, è ciò che è: l’horror è solo un ramo di questo genere”. Sottolineo.

Breve in cronaca

giugno 22, 2010

Fantasy on air mi ha fatto un’intervista, e la trovate qui.

Libri e lettori

giugno 21, 2010

Gironzolavo per librerie, in questi giorni, decisa a procurarmi finalmente L’ospite di Sarah Waters. Se non ricordo male, è uscito all’inizio dell’inverno, ma fra una cosa e l’altra non ero ancora riuscita a metterci le mani. Ebbene, non riesco a trovarlo. Non negli scaffali dedicati al fantastico, non in quelli di narrativa. So bene che non è una novità: e non è una novità che in prima fila, in ogni settore, ci siano soltanto i libri usciti da pochissimo (parliamo di un paio di mesi) oppure quelli da classifica o in odor di premio Strega.

Immaginiamo che qualcuno, dopo aver letto Danse Macabre, o uscendo da una retrospettiva di Roman Polanski, desideri comprare Nastro rosso a New York di Ira Levin, meglio noto come Rosemary’s Baby. Alla richiesta, riceverebbe in cambio un’occhiata sbigottita del libraio: anche se si tratta di uno dei grandissimi dell’horror novecentesco.

Pazienza. C’è Internet. E a proposito di Internet, ho conosciuto Giuseppe Granieri su Facebook: Granieri è considerato uno dei massimi esperti italiani del web. Ha scritto questo post sul suo blog: si chiama Il potere dei lettori e fa pensare.

Etica e conformismo

giugno 19, 2010

Mi sono alzata presto e sono andata in giro per edicole. Volevo farmi una personale rassegna stampa su José Saramago, ma ammetto di essermi fermata dopo la lettura di “Libero”. Il titolo:  “La cecità del Nobel conformista”. Parte del testo (diligentemente ricopiato sul mio taccuino): “Nelle sconclusionate invettive dello scrittore portoghese, nelle sue arringhe, non c’era nulla che non fosse già sentito, già pensato, già macinato da decenni di attivismo politico di sinistra”.
Credo che la risposta migliore venga dallo stesso Saramago, in un articolo inedito che è stato pubblicato da “Repubblica”. E che finisce così:

“Lo scrittore, se è uomo del suo tempo, se non è rimasto ancorato al passato, deve conoscere i problemi del tempo che gli è capitato di vivere. E quali sono i problemi oggi? Che non siamo in un mondo accettabile, esattamente il contrario, viviamo in un mondo che va di male in peggio e che a livello umano non serve.
Attenzione, però: che non si confonda quello che rivendico con una qualsiasi espressione moralizzante, con una letteratura che viene a dire alle persone come dovrebbero comportarsi. Sto parlando d’altro, della necessità di contenuti etici senza nessuna traccia di demagogia. E, condizione fondamentale, che non ci si separi mai dall’esigenza di un punto di vista critico”.

Il fatto è che quella parola, etica, sembra essere diventata l’incubo di un bel po’ di persone, da ultimo.