Gli scrittori possono essere preveggenti? La domanda è retorica e la risposta is blowing in the wind.
Ci ripensavo a proposito del mio inseguimento dei padri letterari. Cos’è un padre letterario, peraltro? E quanti figli ha?
Seconda domanda (non retorica) in poche righe, ma abbiate pazienza. I padri letterari, dunque, sono quelli che dobbiamo cercare, per quel che riguarda il fantastico italiano. Il che non significa guardare necessariamente nella letteratura del nostro paese. Anche, senza dubbio, per forza. Però, per cercare di capire se esiste un territorio comune a chi, oggi, scrive fantastico, occorre intanto inseguire i propri: e condividerli, come sto facendo ora. Confessando una bugia.
Ho sempre detto che il primo fu Poe. La lettura determinante, la tappezzeria della casa di Ligeia che si sdoppia e fiammeggia e fa trasparire il varco.
Anche.
Ma c’è stato ancora un prima, ed è il racconto preveggente dello scrittore che mi ha fatto sentire la forza dei varchi di cui sopra. Non la stanza di una morta che vuole tornare, ma un cancello.
Il cancello di un cimitero che si chiude. Che si sta chiudendo, anzi. E dentro c’è una ragazza. Una ragazza che sente all’ultimo momento il richiamo del custode, e corre con il fiato in gola lungo i sentieri ricavati fra le lapidi, e la ghiaia si infila nelle sue scarpette, e il vestito la impaccia. Perchè era elegante, la ragazza. Si era fatta bella per incontrare il fidanzato, in gran segreto, fingendo di andare a pregare sulla tomba di suo padre. Ma, ecco, era arrivata in ritardo all’appuntamento, e si era persa, ed era così lontana dall’uscita e così assorta nei pensieri da non accorgersi dell’ora, e l’avvertimento è arrivato tardi, e il crepuscolo è già sceso, e le lapidi stanno confondendosi l’una con l’altra, non sono che uno scintillio cupo nel grigio scuro dell’aria.
E il cancello è chiuso.
Quando la notte scende, comincia l’orrore. Quello che si immagina doveroso per una ragazza intrappolata fra i morti. E quello vero. Che striscia, respira, insegue. E uccide, proprio mentre la salvezza sembra a portata di mano. Quello stesso orrore che, strisciando dall’oscurità di un tunnel, ha straziato un’altra ragazza che la madre aveva mandato a comprare carbone. Quello che si nasconderà nelle zone d’ombra di un giardino, spiando due amiche che cenano in allegria, per farne a pezzi una.
Avviene nella città di Ciudad Real, che non esiste. Ma, molto più tardi, a Ciudad Juarez, altre ragazze moriranno davvero, massacrate da un orrore senza nome. Allora, non lo sapevo. Ma quando ho avuto fra le mani L’alibi nero di Cornell Woolrich (dopo anni di letture adolescenziali che ruotavano attorno ad Agatha Christie), ho scoperto cosa significasse la paura. Anzi, cosa significasse letteratura nera.
Woolrich non scrive, semplicemente, noir. Capita – e capita nella maggior parte dei casi, anzi – che le sue storie abbiano una spiegazione tutt’altro che sovrannaturale. Eppure, squarcia il confine. Perchè l’oscurità che riesce a evocare si agita dentro il cuore di chi ne sarà vittima: è la forma sotto il lenzuolo di cui parla King. Non sei tu a toccarla, è lei che si alza e ti imprigiona in un abbraccio freddo.
Quello è stato il mio primo passo nel cono d’ombra, fuori della geometrica, appagante razionalità del giallo. Quello è stato il mio primo padre.
Amatelo.
Tag: Cornell Woolrich
luglio 27, 2010 alle 8:27 am |
2666.
luglio 27, 2010 alle 8:30 am |
Aspetto di leggerti. 🙂
luglio 27, 2010 alle 8:34 am |
Ma essere “figlia” di C.W. significa riformulare quello che lui ha già detto? 😉
luglio 27, 2010 alle 8:37 am |
No! Significa portarne avanti le suggestioni, secondo me. Soprattutto il porsi con frequenza dal punto di vista della vittima. Soprattutto inserire le emozioni dei personaggi nella storia (e non è banale come sembra: molto spesso è la trama a schiacciare le emozioni, e anche i personaggi).
luglio 27, 2010 alle 8:38 am |
Lara: leggilo, è un gran libro. Ne parlo presto sul blog.
luglio 27, 2010 alle 8:40 am |
Sarà mio entro brevissimo. Prometto e leggo e aspetto.
luglio 27, 2010 alle 8:51 am |
Non saprei se definirlo imprinting, ma ero piccolo.
“Illusioni: le avventure di un messia riluttante” di Richard Bach. 🙂
luglio 27, 2010 alle 8:55 am |
Bene. 🙂
Seconda domanda: anche i lettori possono avere un padre letterario. ?
luglio 27, 2010 alle 9:47 am |
Sir Robin: che non ho letto, pensa.
Val. Ovvio. 🙂
luglio 27, 2010 alle 10:54 am |
Allora il mio è Miguel de Cervantes. 🙂
luglio 27, 2010 alle 11:02 am |
E dicci perchè, allora: mica puoi essere esentato in quanto lettore.
luglio 27, 2010 alle 11:09 am |
Uno dei miei padri è una madre: La carta gialla di Charlotte Perkins Gilman
http://www.unilibro.it/find_buy/Scheda/libreria/autore-gilman_perkins_charlotte_tomasi_b_cur_mcmurphy_l_cur_/sku-290918/la_carta_gialla_.htm
Ale, che è più bravo di me a descrivere quello che legge, ne dice: “una originalissima e spettacolare convergenza tra ghost story, delirio gotico, resoconto semi-autobiografico, diario di una psicosi e manifesto proto-femminista.”
luglio 27, 2010 alle 11:10 am |
Scusate lo “sloggata”, wp fa sempre il caspio che gli pare -.-‘
luglio 27, 2010 alle 11:28 am |
Perchè l’ho letto quando ero un bambino e mi ha “lasciato” la sensazione che sia possibile trasferire il fantastico nel reale. L’ingenua convinzione che se crediamo veramente in qualcosa allora la nostra visione del mondo, il mondo stesso, si accorderà con essa. Don Chisciotte “fallisce” perchè la sua fede è mancante.
Poi con l’età ho riletto, ma tutt’ora capisco che le mie “scelte” riflettono ancora la mia illusione infantile. 🙂
luglio 27, 2010 alle 12:28 PM |
Vale, ecco un libro che devo leggere. Grazie.
Val. Bellissima motivazione. Ci sarebbe, in effetti, da ragionare sulla “fede mancante” del visionario. Anche oggi.
luglio 27, 2010 alle 1:03 PM |
Il nostro problema è il principio del minimo sforzo a cui soggiaciono anche gli scrittori, alla fine ci/vi “prendono” sempre per stanchezza.
Zipf aveva dannatamente ragione 😦
luglio 27, 2010 alle 7:19 PM |
Il mio padre letterario, se cosi si può definire chi mi ha introdotto alla lettura, è Jules Verne. Forse non a livello dei grandi della letteratura, ma di certo un grande maestro del fantastico, capace di intuizioni che si riveleranno sorprendentemente reali in quello che per lui era il futuro.
luglio 28, 2010 alle 9:19 am |
Verne è un grande, a dodici anni lessi quattro o cinque volte L’Isola Misteriosa, immaginando un possibile fandom (il ragazzo che tornava a prendere il Nautilus dopo diversi anni) solo che allora non lo sapevo e non pensavo fosse possibile scrivere una storia con personaggi creati da qualcun altro…)
luglio 28, 2010 alle 5:37 am |
Per me, dopo aver passato l’infanzia tra Carroll, Barrie, Andersen e i Grimm, è stata una folgorazione scoprire che un autore italiano era venuto prima di tutti loro. Uno che i Grimm conoscevano e apprezzavano: il napoletano Giambattista Basile, con le sue novelle fantastiche e un po’ barocche de “Lo cunto de li cunti” (1634-36). Ecco, quando sento dire “ma noi non abbiamo una tradizione fantastica”, ma noi non abbiamo avuto Andersen o i Grimm”, penso: già, noi ne abbiamo avuto uno prima! E da quello ho iniziato a scrivere storie fantastiche! 🙂
luglio 28, 2010 alle 7:28 am |
Giusto Lidia. Da Basile provengono tesori. E pensiamo anche al lavoro sulla fiaba fatto, in tempi vicini, da Italo Calvino.
luglio 28, 2010 alle 10:16 am |
Un fandom sull’isola misteriosa? Che grande idea dovresti farlo!!!