Porajmos.
Non credo che siano in molti a conoscere questa parola. Al contrario, tutti sanno cosa significa Shoah. E’ la stessa cosa. Porajmos, in lingua romanì, significa “divoramento” e indica lo sterminio degli zingari all’epoca della soluzione finale del nazismo. Inizia nel 1936, alla vigilia dei giochi olimpici di Berlino, quando Hitler decide che la città dev’essere ripulita. Ordina dunque la costruzione di un campo di concentramento a Marzahn per internare centinaia di Rom e Sinti. Non fu l’unico campo.
Furono fra i cinquecentomila e il milione e mezzo le vittime. Trattate, se è possibile, in modo ancora peggiore degli altri internati. Rom e Sinti, contrassegnati dal triangolo nero che si assegnava agli individui “anti-sociali”, venivano usati preferibilmente come cavie per gli esperimenti scientifici, soprattutto ad Auschwitz. A molti di loro furono inoculati germi e virus patogeni per osservare la reazione dell’organismo di fronte alle malattie, altri vennero obbligati a ingerire acqua salata fino alla morte. Le donne giovani venivano sterilizzate, con pratiche atroci. Quelle più anziane venivano spogliate e utilizzate per riscaldare i corpi di coloro che erano stati soggetti agli esperimenti sul congelamento. Sia le donne che gli adolescenti rom impiegati per gli esperimenti venivano tenuti rinchiusi in minuscole gabbie o stanze all’interno dei laboratori, completamente nudi e costretti a pisciare e defecare davanti a tutti.
Ma l’Italia, per i rom di tutta Europa, è il paese dei campi: perchè prima dell’arresto di Mussolini fu nei campi italiani che vennero internati. Nessuno lo ricorda. Nessun Giorno della Memoria è dedicato a loro.
Però, pochi mesi dopo quel novembre 2007 in cui tutti i politici, di qualunque schieramento, dichiararono che romeni e rom (con notevole confusione fra i termini) erano la mala pianta dell’Italia, la polizia irrompe all’alba nel campo rom milanese di via Impastato. E’ il 6 giugno 2008. Censimento. Rilevazione di impronte digitali. E altro. La maggior parte delle famiglie ha la cittadinanza italiana. Fra loro c’è Giorgio Bezzecchi. Suo padre, Goffredo, venne recluso nel campo di detenzione di Tossicia, provincia di Teramo, in quanto zingaro. Suo nonno era morto a Birkenau.
“Vergogna”, mormora Bezzecchi. Nessuno lo ascolta. Dal 2007, la narrazione era un’altra.
Porajmos.
Archive for novembre 2010
2007/2
novembre 30, 20102007/1
novembre 29, 2010No, non vi piacerà. Perchè il 2007 è quasi il presente, e ognuno di noi c’era, e ognuno di noi ricorda.
Quando ho cominciato a scrivere Sopdet, il 2007 stava morendo: erano gli ultimi giorni di dicembre, e si chiudeva un anno che per me è stato meraviglioso, e che rimpiangerò finché avrò vita. Ma i personalismi poco contano. Perché attorno a me erano accadute cose atroci.
Non le ritroverete se non in poche righe. Pochissime. Ci saranno indizi, qua e là, disseminati nella parte del romanzo che è ambientata nel “presente”, che vi riporteranno a quel clima.
Qui, però, voglio parlarne. E pazienza se non vi piacerà.
Perché c’è un legame. Un legame che unisce i campi italiani del fascismo all’Italia di tre anni fa, e forse di oggi.
I campi “del duce” vennero istituiti dal capo della polizia fascista, Italo Bocchini, con un’ordinanza dell’11 settembre 1940 dove si ordinava non solo la detenzione degli slavi, ma “il rastrellamento e la concentrazione di zingari italiani e stranieri sotto rigorosa sorveglianza per porli in località adatte in ciascuna provincia”.
Zingari. Zigauner. Allogeni.
“Esistono comunità che non sono integrabili nella nostra società. Mi chiedo come sia possibile integrare chi considera pressoché lecito e non immorale il furto, il non lavoro perché devono essere le donne a farlo magari prostituendosi, e non si fa scrupolo di rapire bambini o di generare figli per destinarli all’accattonaggio. Parlare di integrazione per chi ha una cultura di questo tipo non ha senso”.
Non è un gerarca a parlare. E’ il presidente della Camera, Gianfranco Fini, in una dichiarazione al Corriere della Sera del 4 novembre 2007.
Vedremo perché.
1977/10
novembre 26, 20101981. Il 9 maggio il giudice istruttore Claudio D’Angelo chiude l’inchiesta sull’uccisione di Giorgiana Masi con la dichiarazione di impossibilità di procedere poiché rimasti ignoti i responsabili del reato.
1985. Francesco Cossiga diventa Presidente della Repubblica. Lo resterà fino al 1992.
1998. In seguito alla riapertura delle indagini – da anni sollecitate da più parti, e affidate al Pm Giovanni Salvi della procura di Roma, venne riesaminata la pista che riguardava la pistola. L’ex presidente della commissione stragi, Giovanni Pellegrino, ipotizza che quel giorno sia stato cercato un omicidio deliberato.
2007. Cossiga dichiara al Corriere della Sera: “Gli agenti in borghese c’erano ma contro la mia volontà”. Alla domanda su chi fu a sparare, rispose: “La verità la sapevamo in quattro: il procuratore di Roma, il capo della mobile, un maggiore dei carabinieri e io. Ora siamo in cinque: l’ho detta a un deputato di Rifondazione che continuava a rompermi le scatole. Non la dirò in pubblico per non aggiungere dolore a dolore”.
2008. Cossiga dichiara: “Un’efficace politica dell’ordine pubblico deve basarsi su un vasto consenso popolare, e il consenso si forma sulla paura, non verso le forze di polizia, ma verso i manifestanti[…]l‘ideale sarebbe che di queste manifestazioni fosse vittima un passante, meglio un vecchio, una donna o un bambino, rimanendo ferito da qualche colpo di arma da fuoco sparato dai dimostranti: basterebbe una ferita lieve, ma meglio sarebbe se fosse grave, ma senza pericolo per la vita[…]io aspetterei ancora un po’ e solo dopo che la situazione si aggravasse e colonne di studenti con militanti dei centri sociali, al canto di Bella ciao, devastassero strade, negozi, infrastrutture pubbliche e aggredissero forze di polizia in tenuta ordinaria e non antisommossa e ferissero qualcuno di loro, anche uccidendolo, farei intervenire massicciamente e pesantemente le forze dell’ordine contro i manifestanti.” (dalla lettera aperta alle forze dell’ordine dell’8 novembre 2008)
In seguito a quest’ultima dichiarazione è stata depositata in Parlamento una proposta di legge per l’istituzione di una commissione d’inchiesta sulla morte di Giorgiana.
Un anno prima, nel 2007, nella mente degli italiani viene instillata una parola: paura.
La parte contemporanea di Sopdet è ambientata in quello che è già un passato: tre anni fa, appunto.
2007: un anno con cui occorre fare i conti. Proverò a dire perché.
1977/9
novembre 25, 2010Venerdì 13 maggio, Camera dei Deputati. Cossiga ha appena finito di dare la propria versione dei fatti. I deputati che erano presenti per le vie di Roma lo smentiscono.
Gorla (Democrazia Proletaria): “Ho avuto modo di verificare qullo che lei, signor ministro, chiama il grande senso di prudenza e moderazione delle forze dell’ordine…quando, dopo che mi ero chiaramente qualificato come parlamentare, sono stato a mia volta brutalizzato e insultato”.
Rauti (Msi-Dn): “Troppo poco!”
Manco (Democrazia nazionale): “A questo punto occorre intervenire su questo tipo di stampa, è la sollecitazione continua al delitto (si riferisce al Corriere della Sera che riportava come si erano svolti i fatti)
Bernardi (Dc): “Se volete il fuoco della rivoluzione, prendetevi anche le ficozze che ne derivano” (ficozze sta per bernoccoli, in romanesco)
Sabato, 14 maggio. Il quotidiano Il Messaggero svergogna Cossiga che aveva smentito che l’uomo con la maglia bianca con striscia scura e pistola in mano fosse un agente di polizia. I cronisti, anche di altre testate, testimoniano di averlo visto a colloquio con agenti in divisa. E tirano fuori il materiale fotografico. L’agente si chiama Giovanni Santone ed è in servizio alla terza sezione della squadra mobile.
Sabato, 14 maggio. Funerali di Giorgiana Masi. Questa la cronaca:
“Migliaia di poliziotti tengono sotto mira il concentramento. La Questura non osa ordinare la carica, che potrebbe risolversi in un massacro. (…) Le dichiarazioni del questore sono state smentite dagli stessi giornali, le foto di poliziotti in borghese che prendono di mira con armi da fuoco i manifestanti sono state pubblicate con didascalie che indicano nomi, cognomi e gradi. (…) La Questura pretende che non si gridino slogan. Il sit-in diventa silenzioso, ma di un silenzio che dura due ore (…) Quando la manifestazione si scioglie, la rabbia poliziesca si scaglia contro il presidio femminista posto intorno al punto dove Giorgiana è caduta. Ne segue un violento pestaggio di una decina di donne” (Piero Bernocchi, Dal ‘77 in poi, Roma, Erre Emme Edizioni, 1997; pp. 228-229).
Resta un foglio, con una poesia. Un giorno sarà incisa su una lapide. Una poesia per Giorgiana.
“Se la rivoluzione di Ottobre fosse stata di Maggio,
se tu vivessi ancora,
se io non fossi impotente di fronte al tuo assassinio,
se la mia penna fosse un’arma vincente,
se la mia paura potesse esplodere nelle piazze,
coraggio nato dalla rabbia strozzata in gola,
se l’averti conosciuta diventasse la nostra forza,
se i fiori che abbiamo regalato alla tua coraggiosa vita nella nostra morte
almeno diventassero ghirlande nella lotta di noi tutte donne, se..
Non sarebbero le parole a cercare di affermare la verità,
ma la vita stessa, senza aggiungere altro”.
1977/8
novembre 24, 2010Le cose finiscono. Finisce anche quella giornata tremenda. Il cronista del Corriere della Sera, Andrea Purgatori, resta a Ponte Garibaldi fino alle 21.45, prende nota dei tantissimi agenti in borghese presenti nella piazza. Poco dopo le 21, si sparge la notizia della morte di una ragazza. Insieme ad altri colleghi, Purgatori chiede conferma al dirigente dell’ufficio politico Umberto Improta, che dichiara: “Non mi risulta nulla. La radio non ha comunicato niente. L’ospedale non ha detto nulla. La polizia non ha sparato”.
Questa frase, “La polizia non ha sparato”, verrà ripetuta a lungo, nei giorni successivi. Ascoltatela. E guardate.
Nella controperizia di parte civile, depositata il 6 dicembre 1978, si determinerà che Giorgiana Masi venne uccisa “da un colpo d’arma da fuoco a proiettile unico, trapassante, con traiettoria pressoché ortogonale al dorso della ragazza (e cioé parallela al terreno) sparatole alle spalle”. Il calibro era di 6 millimetri. Si trattava di un “proiettile blindato e dotato di grande energia vulnerante”. Secondo i controperiti, un proiettile calibro 22 Magnum blindato, compatibile con l’assenza di tracce di piombo nel corpo di Giorgiana, e sparato da 40/60 metri.
La causa della morte, si legge nell’autopsia, fu “emorragia interna massiva conseguita a dilacerazione dell’aorta in prossimità della sua biforcazione”.
Non ci fu quasi tempo, per Giorgiana, per capire davvero.
A trentatre anni di distanza, non è stato dato modo, a chi è sopravvissuto e a chi non era ancora nato, di sapere chi l’ha uccisa.
Anzi.
1977/7
novembre 23, 2010La conosco da una foto tessera, quelle in cui abitualmente si viene male, e che si nascondono in tasca o in borsa (“no, dai, sono orribile qui”). Giorgiana Masi, invece, era bella anche in quella fotografia. Gli occhi erano tristi, però. Ci sono delle immagini che, per un motivo insondabile, preannunciano la morte, perchè lo sguardo è fisso lontano, verso un orlo sfilacciato. Dopo quell’orlo, il buio.
Effetto retroattivo. Eppure, mi fa quell’impressione.
Giorgiana Masi è figlia di un parrucchiere e di una casalinga. Frequenta il quinto anno del liceo scientifico Pasteur. Ha un ragazzo, si chiama Gianfranco Papini. E’ con lui, intorno alle 19.30 a Ponte Garibaldi.
La ricorda bene una bambina di undici anni: la bambina si chiama Simona, è uscita dalla scuola di danza, si trova coinvolta nel disastro in cui si è trasformato il lungotevere. La bambina guarda, affascinata e spaventata. Finchè una ragazza la prende per un braccio. “Vattene via, qui è pericoloso. Fra poco qui sparano”. La accompagna fino all’inizio di Ponte Garibaldi. Simona capisce, infine, il pericolo, si mette a correre. Mentre scappa vede, su lungotevere Anguillara, “uomini con divisa con un fucile o un mitragliatore non so, puntato ad altezza d’uomo”. Sente i colpi d’arma da fuoco. Corre più forte.
Il giorno dopo, Simona vede sul giornale una fotografia di Giorgiana Masi. La riconosce: è stata a lei a prenderla per il braccio, e a farla fuggire.
Ma è ancora il giorno prima.
E Giovanni Salvatore sta correndo. Si rende conto che la ragazza che ha superato è caduta a faccia avanti. Si volta. Vede che è ancora a terra. Torna indietro per aiutarla ad alzarsi. Non ce la fa, chiede aiuto, mentre gli spari continuano. Arrivano altre tre persone. Sollevano Giorgiana. Sono nei pressi di Piazza Belli. La portano di corsa nello slargo vicino al capolinea degli autobus. La ragazza geme, “Oddio che male”. Cercano di rassicurarla. Non c’è sangue. La adagiano a terra. E, nota Giovanni, il corpo della ragazza si irrigidisce improvvisamente, “le mascelle serrate, le braccia tese, gli occhi sbarrati”.
Arriva un altro ragazzo. Si china su di lei. Racconta dettagliatamente il modo in cui è vestita (jeans, camicetta bianca, un giacchetto di lana marrone chiaro con grossi bottoni). Nota che ha la bocca chiusa e i denti serrati, gli occhi “grandi, neri, sbarrati”. Pensa a un attacco di epilessia. Non perde sangue. Arriva un medico che le solleva il capo e le tocca le braccia. Si ferma una macchina, un’Appia bianca, la ragazza viene sollevata e adagiata sul sedile posteriore. Mentre la caricano, si porta una mano sulla pancia.
La pancia. Qualcuno diffonde la voce che è stata ferita frontalmente.
Invece è stata colpita alla schiena. E i colpi, racconta Lelio, un altro testimone che era accanto a lei, venivano solo dalla parte dove era schierata la polizia.
A dirlo sarà anche una donna di trent’anni, Elena Ascione. Sta fuggendo verso piazza Sonnino nello stesso momento. Viene colpita alla coscia. Cade. Sopravvive.
Giorgiana muore prima di raggiungere l’ospedale.
1977/6
novembre 22, 2010Cerco di immaginare le strade che conosco.
Ponte Sisto. Via Arenula. Ponte Garibaldi. Le strade dove tante volte ho camminato col naso in aria, guardando il cielo di Roma solcato dalle scie degli aerei, o dove mi sono fermata per guardare i mulinelli d’acqua attorno ai tronchi caduti nel Tevere.
Cerco di immaginarle come dovevano essere allora, oscurate dal fumo dei lacrimogeni, invase da ragazze e ragazzi in fuga, con gli autoblindo in corsa.
Cerco di immaginarle con gli occhi di un testimone, Giovanni Salvatore, che alle 19.15 di quel 12 maggio sta andando al negozio di suo fratello, a via del Governo Vecchio. Si trova sul lungotevere Sanzio, vede un corteo, cerca di capire da chi è composto, ne raggiunge la testa. E in quel momento la polizia, che si è attestata all’angolo tra Ponte Garibaldi e lungotevere Sanzio, lancia le bombe lacrimogene. Giovanni scappa verso viale Trastevere. La polizia torna indietro. Si ferma all’altro imbocco di Ponte Garibaldi, dalla parte di via Arenula. Ci sono molte persone su quella strada, molte altre sedute sui gradini dei marciapiedi attorno a piazza Belli. Sul lungotevere Anguillara, dove c’è il distributore di benzina, sono fermi due vigili in motocicletta. Sono ormai le 19.45. Giovanni sente i colpi di un’arma da fuoco. Sono secchi, li riconosce subito.
L’inquadratura cambia.
Si ferma su Alfeo Benedettini, che è anche lui all’ingresso di Ponte Garibaldi dalla parte di Trastevere. Sente il colpo di pistola. Vede la folla disperdersi. Si gira. Vede i due vigili urbani. Uno di loro, con calma, sta riponendo qualcosa nella fondina.
L’inquadratura cambia ancora.
Si ferma su Lucia Durando, che sta camminando con due amici su lungotevere Anguillara, verso Trastevere. Sente il colpo di pistola, si gira nella direzione del suono. Vede un agente della municipale di spalle. Ha la pistola in mano. Esplode un secondo colpo, ad altezza d’uomo. Monta in moto, parte. Ne parte una seconda con un agente in divisa e un altro in borghese.
Ancora un’inquadratura.
Daniele Mazzanti viene dall’Isola Tiberina, è sul lungotevere degli Anguillara. Vede l’agente della muncipale che impugna una pistola ad altezza d’uomo. In direzione di piazza Belli, all’imbocco con Ponte Garibaldi. Spara.
In quel momento Giovanni Salvatore comincia a correre. Supera in corsa una ragazza. Alla sua sinistra.
La ragazza cade.
1977/5
novembre 19, 2010Intorno alle 18 la parte finale di via dei Baullari è occupata interamente dalla polizia. Il fuoco di sbarramento di candelotti è spaventoso. Alle 18. 10, Leandro Turriani vede gli agenti in borghese avanzare, con i bastoni in mano. Da via del Pellegrino avanzano anche i poliziotti in divisa. Si nasconde in un portone insieme a quattro fotoreporter. Un agente prende la mira con il fucile contro di loro. A piazza della Cancelleria due agenti in divisa si portano sul portone di destra di una chiesa: estraggono le pistole e cominciano a sparare contro i dimostranti, ad altezza d’uomo. “Cerco di riprenderli, dice Turriani, con la mia macchina fotografica. Uno dei due si accorge e mi punta contro una pistola. Dopo qualche minuto se ne vanno dopo aver raccolto i bossoli”.
Dalle 18.40 alle 18.50 i poliziotti sparano almeno venti colpi di pistola. Turriani incontra Emma Bonino, in lacrime: “Per carità, cerchiamo di uscire prima che ammazzino qualcuno”. Anche lei ha ascoltato la frase rivolta a giornalisti e fotografi, che viene registrata: “Se non ve ne andate vi spariamo addosso”.
Settimane dopo, il sottosegretario agli Interni Nicola Lettieri dichiarerà ufficialmente: “La questura di Roma ha precisato che le forze di polizia impegnate nella circostanza non fecero uso delle armi da fuoco”.
1977/4
novembre 18, 2010Fra le 16 e le 16.30 Luigi Irdi del Corriere della Sera è a corso Vittorio, che si è riempita di curiosi e manifestanti che non possono raggiungere piazza Navona. Davanti a sè, Irdi vede un gruppetto di ragazzi che si è rifugiato davanti al cancello di un istituto religioso. Vede la jeep che passa, vede il candelotto che raggiunge il ragazzo solitario “poco sotto la nuca”. Assiste al pestaggio. Comincia a pensare che “la polizia abbia ricevuto l’ordine di disperdere ogni piccolo assembramento, non riparmiando lacrimogeni”.
Alle 16.15 Filomena vede i poliziotti in borghese a piazza della Cancelleria. Li vede avanzare “con le pistole spianate”: ne nota uno, che è importante per questa storia. Ha una maglia bianca con una striscia blu. Li vede anche Carla, che sta andando a casa con un’amica.
Sono le 16.30. Gli autobus sono intrappolati a largo Argentina. L’aria è satura di fumi tossici. Dieci persone a bordo della linea 87 vengono portate in ospedale: la diagnosi è intossicazione.
Anche Silvia, rinchiusa nello stesso negozio di accessori per il bagno di corso Vittorio (dove viene medicato il ragazzo pestato) vede gli agenti in borghese. Sono armati di pistole e bastoni. Anche lei nota l’uomo con la maglia bianca e la striscia blu.
Alle 17, un ragazzo è a piazza Farnese. Nota che davanti alla trattoria “La Carbonara” ci sono due blindati della polizia. Nel gruppo c’è un agente in borghese, travestito da manifestante. Prima parla con i colleghi in divisa. Poi si allontana, si mescola a un altro gruppo di ragazzi (stavolta veri manifestanti) e avanza di nuovo, ma “mascherato”, verso la polizia facendo con la mano il gesto della pistola (il segno della P38, all’epoca utilizzato dagli autonomi). Il testimone non ha tempo di vedere altro. Perchè in quel momento qualcuno spara e viene colpito al polso e alla spalla.
Anche Marco sta passando in piazza della Cancelleria. In quel momento sente un colpo d’arma da fuoco. La macchina accanto vibra. Il proiettile trapassa il sedile anteriore e quello posteriore, si ferma nel portabagagli. E’ il panico. Quasi tutti cercano di scappare verso piazza Farnese.
O verso via Arenula.
Alla Camera, Francesco Cossiga riferisce di “nuovi incidenti avvenuti tra le ore 17 e le 19.30” e di “aberranti bravate” compiute dai manifestanti.
Il peggio deve ancora venire.
1977/3
novembre 17, 2010A piazza San Pantaleo, per esempio, c’era il redattore del Messaggero Renato Gaita. Nota i reparti della celere schierati sotto Palazzo Braschi. Nota, dall’altra parte della piazza, duecento ragazzi che commentano quel che sta succedendo. Nota il funzionario di polizia, dottor Luongo, che improvvisamente irrompe fra loro e trascina via un ragazzo. Alla richiesta, pacifica, di spiegazioni, fa partire la carica: i lacrimogeni vengono sparati ad altezza d’uomo. E’ in questo momento che avviene il pestaggio delle ragazze e della donna cinquantenne. Gaita si sposta. A piazza della Cancelleria vede sfilare una colonna della celere. Sul marciapiede c’è un ragazzo, solo. La colonna gli passa davanti. Dall’ultima camionetta un agente solleva il telone, punta il fucile col lacrimogeno innestato, spara. Il candelotto prende in piena schiena il ragazzo, lo scaraventa a terra dopo un volo di cinque metri. La colonna si ferma, dalla jeep scendono quattro agenti che circondano il ragazzo caduto e lo prendono a manganellate, mentre uno di loro gli sferra un calcio in piena faccia.
Ma Gaita nota altro, in quella piazza. Un agente che “estrae rapidamente la pistola e spara a braccio teso”. Nessuno, in quel caso, viene colpito.
Nel frattempo.
Una madre e una figlia tredicenne, Anna e Susanna, si stanno dirigendo verso piazza Navona. Alla fine di via Zanardelli un cordone di carabinieri chiude la strada. La madre si rivolge alla figlia per decidere cosa fare, si gira per andarsene. Viene inseguita da un sottufficiale che la colpisce alla schiena con un manganello e le urla “vai a casa a lavorare la calza!”.
Nel frattempo.
Sandro ha parcheggiato la macchina in un vicoletto prima di Palazzo Braschi. Cerca di spostarla a braccia. Attraverso il vetro vede un poliziotto in borghese ma con l’elmetto aprire la giacca, prendere la pistola, sparare verso di lui. Il proiettile si conficca in un cartello stradale.
Nel frattempo.
Silvia è in un negozio di Corso Vittorio, tra piazza San Pantaleo e la Cancelleria. Vede il lancio di lacrimogeni. Esce per cercare il figlio. Passa vicino agli agenti. Ode distintamente un funzionario di polizia mentre afferma: “Appena si forma un altro gruppo, gli spariamo”.
Nel frattempo.
Augusto e Gaetana, marito e moglie, sono a piazza San Pantaleo. Anche loro passano accanto ai poliziotti. Vedono distintamente “un giovane tarchiato in borghese, con la pistola in pugno e più lontano un altro in borghese con un mitra a canna corta, entrambi rivolti verso il corso Vittorio, alle spalle dei poliziotti in divisa. Abbiamo notato che questi ultimi erano piuttosto irrequieti…un signore di mezza età cercava di tenerli calmi ripetendo ‘Calma ragazzi, aspettate, non è ora’”
Non sono ancora le 16.30. Alcune pallottole si conficcano nell’insegna dei negozi.
Il giorno dopo, rispondendo alla Camera, Cossiga dirà che “la polizia ha dimostrato d’aver grande senso di prudenza e di moderazione”.