2007/2

Porajmos.
Non credo che siano in molti a conoscere questa parola. Al contrario, tutti sanno cosa significa Shoah. E’ la stessa cosa. Porajmos, in lingua romanì, significa “divoramento” e indica lo sterminio degli zingari all’epoca della soluzione finale del nazismo.  Inizia nel 1936, alla vigilia dei giochi olimpici di Berlino, quando Hitler decide che la città dev’essere ripulita. Ordina dunque la costruzione di un campo di concentramento a Marzahn per internare centinaia di Rom e Sinti. Non fu l’unico campo.
Furono fra i cinquecentomila e il milione e mezzo le vittime. Trattate, se è possibile, in modo ancora peggiore degli altri internati. Rom e Sinti, contrassegnati dal triangolo nero che si assegnava agli individui “anti-sociali”, venivano usati preferibilmente come cavie per gli esperimenti scientifici, soprattutto ad Auschwitz. A molti di loro furono inoculati germi e virus patogeni per osservare la reazione dell’organismo di fronte alle malattie, altri vennero obbligati a ingerire acqua salata fino alla morte. Le donne giovani venivano sterilizzate,  con pratiche atroci. Quelle più anziane venivano spogliate e utilizzate  per riscaldare i corpi di coloro che erano stati soggetti agli esperimenti sul congelamento. Sia le donne che gli adolescenti rom impiegati per gli esperimenti venivano tenuti rinchiusi in minuscole gabbie o stanze all’interno dei laboratori, completamente nudi e costretti a pisciare e defecare davanti a tutti.
Ma l’Italia, per i rom di tutta Europa, è il paese dei campi: perchè prima dell’arresto di Mussolini fu nei campi italiani che vennero internati. Nessuno lo ricorda. Nessun Giorno della Memoria è dedicato a loro.
Però, pochi mesi dopo quel novembre 2007 in cui tutti i politici, di qualunque schieramento, dichiararono che romeni e rom (con notevole confusione fra i termini) erano la mala pianta dell’Italia, la polizia irrompe all’alba nel campo rom milanese di via Impastato. E’ il 6 giugno 2008. Censimento. Rilevazione di impronte digitali. E altro. La maggior parte delle famiglie ha la cittadinanza italiana. Fra loro c’è Giorgio Bezzecchi. Suo padre, Goffredo, venne recluso nel campo di detenzione di Tossicia, provincia di Teramo, in quanto zingaro. Suo nonno era morto a Birkenau.
“Vergogna”, mormora Bezzecchi. Nessuno lo ascolta. Dal 2007, la narrazione era un’altra.
Porajmos.

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6 Risposte to “2007/2”

  1. Paolo E Says:

    Che cosa comoda, non trovi?
    Qui si vede molto bene come il problema dell’integrazione cessi di essere tale e diventi uno strumento. Troppo più facile sfogare le tensioni del popolo sovrano soddisfando la naturale ostilità per il diverso, piuttosto che affrontare di petto problemi assai più difficili.
    Nasce secondo me da questo la colpevole assenza delle istituzioni su questo tema (la Bossi Fini non la considero nemmeno). Non c’è la VOLONTA’ di definire il limite tra diversità culturale e crimine. Perchè da un lato si perde consenso (quale legge potrà mai accontentare tutti su una questione del genere?) dall’altro si rinuncia volontariamente ad un potente strumento di controllo del malcontento e di facile propaganda.

    Detto questo, secondo me il Cittadino di una comunità deve essere totalmente aperto ad essa in ogni momento. Quindi una legge, che so, che imponga di fornire le impronte digitali alla richiesta della carta d’identità la farei. Per tutti. Nativi ed immigrati, senza distinzione. Perchè no?

  2. Lara Manni Says:

    Infatti è facile e tutti – parlo dei partiti – hanno seguito questa strada. Sulle impronte, non so dirti. Penso che l’errore sia ancora più a monte: definire un popolo, un’etnia, una cittadinanza e non il singolo appartenente a. E’ come quando si dice, ah, italiani mafiosi. Certo che la mafia esiste, in Italia, ma non per questo siamo tutti esponenti o conniventi di o con Cosa Nostra. Dunque, è la rappresentazione che va cambiata, in primis. Difficilissimo, lo so.

  3. G.L. Says:

    Paolo: daresti le impronte digitali ad uno stato che ha introdotto molotov all’interno della scuola Pertini per creare prove false?

  4. Paolo E Says:

    G.L.: sollevi direttamente il problema principale, cioè la frattura tra cittadino e istituzioni; dovrebbero in teoria essere, se non proprio uno parte dell’altro, almeno compatibili. In un paese normale a nessun governo verrebbe in mente di creare prove false. Ed a nessun cittadino verrebbe in mente di non rispettare una legge approvata a maggioranza solo perchè “a me non va bene”.
    Poi siccome siamo nel mondo reale, e siamo in Italia (ma ci sono stati e ci sono paesi che hanno fatto di peggio) vengono varate leggi che vanno contor il più comune buon senso e la più comune morale.

    Detto questo, io non la metterei giù cosi grossa. Ci sono tre gradi di giudizio, ci sono anche magistrati onesti, siamo in un paese con molte tutele nei confronti degli imputati: continuo a sperare e spero che in condizioni normali le singole persone possano esprimere il loro dissenso senza temere di incorrere in persecuzioni politico-legali.

    P.S.: G.L.? QUELLO DI WUNDERKIND? Acquistato, lo ho in pila. Ne sento parlare molto, nel bene e nel male.

  5. G.L. Says:

    Penso che non sia un problema italiano, tutt’altro. E’ un problema della democrazia che si sta trasformando sempre più in dittatura della massa, anzi della “gente”. Nello specifico la giustizia è espressione di controllo della massa contro la massa stessa, non più di autoregolamentazione. C’è una grossa differenza. Una linea che distingue il depistaggio dall’incolumità, dall’appropriazione delle coscienze alla libera informazione.

    Detto questo, se un giorno dovessero obbligare a depositare le impronte digitali, dovrebbero strapparmele. (quelle del servizio militare dovrebbero averle distrutte)(dovrebbero)

    PS
    Quello, ma tranquillo, non è contagioso… 🙂

  6. Lara Manni Says:

    “In condizioni normali”, Paolo. Mi sto chiedendo se le stiamo vivendo…

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