L’ultima parte dell’articolo di Alessandro Bertante apparso oggi su L’Unità mi dà da pensare. Alessandro Bertante è uno scrittore che, da ultimo, costeggia in prima persona il fantastico: lo ha fatto, per esempio, in Nina dei Lupi, uno dei distopian italiani che nei mesi scorsi hanno evidenziato l’attenzione da parte del mainstream verso la narrativa che, per comodità, continuiamo a definire fantastica. Dico per comodità perché la mia sensazione è che prima o poi occorrerà parlare di narrativa e basta, dal momento che forse- e ripeto, forse – la questione dei generi letterari comincia a essere antistorica, e buona soprattutto per promotori librari e catalogatori. Ma di questo riparleremo.
In particolare, dunque, Alessandro Bertante si occupa di George R.R.Martin, complice il successo del serial televisivo Il trono di spade, tratto dal ciclo Cronache di ghiaccio e del fuoco, e si interroga sul perché.Arrivando, nell’ultima parte dell’intervento, a questa conclusione.
“Credo che alla base della popolarità di Martin stia il fatto che Le cronache del ghiaccio e del fuoco sono una narrazione apocalittica. La saga fantasy inventata dallo scrittore americano ci ricorda il nostro presente, la devastazione del mondo immaginifico delle Terre Occidentali riflette lo smarrimento della contemporaneità, la crisi identitaria dell’Occidente vero e proprio che da molti anni non ha più una tradizione mitica e fondante a cui fare riferimento e che allo stesso tempo è incapace di immaginare un futuro di progresso.
Chi passa intere serate a leggere i romanzi della saga, in questo smarrimento trova quasi una forma di consolazione, una giustificazione del suo presente devastato e vile. E l’empatia con le proprie miserie ridiventa il naturale palliativo di ogni epoca di decadenza”.
Conclusione con cui non concordo, e proverò a spiegare perchè.
In primo luogo, considerare il fantastico (di Martin o di altri) come “palliativo” mi sembra osservazione pericolosa. E’ lo stesso crinale su cui si muoveva Gianfranco De Turris nell’articolo su Il Giornale dove spiegava il successo del fantastico con il rimpianto per idee e mitologie scomparse, anche se poi il pensiero di Bertante va in una direzione diversa. Non diversissima, però: perché anche Bertante attribuisce al fantastico uno sguardo rivolto al passato e incapace di concepire un futuro. E così non è, a patto di non lasciarsi trarre in inganno dalle ambientazioni.
Ma come può concepire il futuro un mondo che, ci vien detto, ha smarrito il mito? A mio parere, i miti non sono scomparsi affatto. Prendono altre forme e altre direzioni, ma sono sempre al loro posto: soprattutto in narrativa, che è il luogo che qui ci interessa. Per fare un solo esempio, Murakami Haruki li usa a palate in Kafka sulla spiaggia. Ma nessuno si sognerebbe di definire “palliativo” la rivisitazione di Edipo che viene fatta in quel romanzo, che utilizza e percorre il piano mitico non per restituire al lettore un presente depauperato, ma tutto ciò che fa parte della cultura degli uomini da qualche millennio a questa parte.
Altro punto di disaccordo: il fantastico come giustificazione del reale. Ma come, mi direte, non hai sempre sostenuto che il fantastico possa raccontare la nostra realtà meglio di un romanzo mainstream?
E’ vero, e continuo a pensarlo. Ma non penso alla realtà in modo didascalico: anche se molti romanzi fantastici fanno riferimento alla medesima in modo esplicito, inclusi i miei, credo che quel che viene davvero restituito in un buon testo sia il sentire di un’epoca, sono le paure, le aspettative o la mancanza delle medesime. Ma non per allontanarsene, mai per consolare.
Il terzo punto su cui sono in disaccordo con Bertante è infatti questo. Leggere Martin (o Le Guin, o King, o Murakami) non mi fa accettare il mondo in cui vivo, rendendomi appagata dal rispecchiamento, anche quando questo è terribile. Semmai, me ne mostra crepe e fessure. Mi spinge a essere re-attiva, non a sognare.
In parole povere: credo sia molto rischioso equiparare il fantastico a un soccorrevole espediente per anestetizzare il lettore, per placarne il dolore mostrandogli i mala tempora di oggi o fargli rimpiangere – come sostiene De Turris – quelli di ieri. Il fantastico è narrativa: possiamo discutere fino alla morte su quali siano gli scopi della medesima, ma estrapolarlo e assegnarli una funzione specifica è, secondo me, decisamente nocivo.
Ps. Detto questo, sono la prima a ignorare il motivo del successo anche televisivo di Martin, o del serial quasi-fantastico Il tredicesimo apostolo. Ma mi rifiuto di pensare che la risposta sia semplicemente “siamo stufi del realismo, vogliamo distrarci”. Preferisco, semmai: “abbiamo voglia di storie”.