Ho appena finito di leggere un’intervista a Umberto Eco su Il cimitero di Praga (che, invece, non ho ancora letto: il fatto è che ho una marea di libri da terminare e altrettanti da cominciare). Il Professore dice due cose interessanti.
La prima, quando l’intervistatore gli chiede come mai nel libro ci siano solo personaggi negativi, e i pochi perbene non sono esattamente baciati dalla buona sorte, Eco risponde: “Perché volevo scrivere un libro cattivo e disperato”.
Allora, mi sono chiesta come mai susciti stupore il fatto che un romanzo possa essere “cattivo”. Per riferirsi solo alle mie letture recenti, “Notte buia, niente stelle” di King è quanto di più “cattivo e disperato” mi sia capitato fra le mani. E sono quattro racconti splendidi: dove però, come da titolo, le stelle non ci sono, e la notte è nerissima. There is no future. Inoltre, l’elenco dei libri “no future” sarebbe lunghissimo. Lo stesso Tolkien non concede molte speranze, a mio modo di vedere, ne “Il signore degli anelli”. Per non parlare di Mister Lovecraft, solo per restare nel genere. Dunque, la domanda mi ha stupito non poco: i libri “cattivi e disperati” non hanno una funzione importante, per chi legge? Anche restando al solo intrattenimento, senza scivolare in altri territori, io penso di sì.
La seconda cosa che mi ha colpita è questa. L’intervistatore fa notare a Eco che “i personaggi impresentabili” del libro sono “piccoli personaggi, non sono i grandi personaggi”. E il Professore dà una bellissima risposta, secondo me: “Questa è la funzione del romanzo storico. Anche Renzo e Lucia sono piccoli personaggi; il romanzo storico si fa attraverso piccoli personaggi, e cerca di rappresentare i grandi eventi”.
Io sono affascinata proprio da questo aspetto del romanzo storico, o della storia nei romanzi: occuparsi dei piccoli e lasciare i grandi sullo sfondo. In realtà, è quello che mi affascina anche nel racconto della storia che si va facendo, o della storia recente. Per dire, se dovessi inserire lo scandalo Parmalat in un romanzo, non ci sarebbe Calisto Tanzi.
E questo era un indizio.
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Cattiveria e disperazione
febbraio 18, 2011Dove si nasconde il narratore?
settembre 17, 2010Perchè, per esempio, anche Umberto Eco si è posto in diversi testi le sue brave domande sul lettore e sull’autore. Per esempio in una serie di lezioni alla Harvard University. Ci sono alcuni passaggi che mi interessano molto. Per esempio.
“…con “C’ era una volta” si istruisce il lettore a reagire come un bambino, e a disporsi ad accettare un mondo molto diverso dal nostro, un mondo in cui esistano le fate, gli animali parlino, e una zucca possa trasformarsi in una carrozza. Molte volte questi segnali possono essere molto ambigui. Pinocchio di Carlo Collodi inizia con “C’ era una volta… Un Re!, diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’ era una volta un pezzo di legno”. Questo inizio è molto complesso.
A prima vista Collodi sembra avvertire che sta iniziando una favola. Non appena i lettori si sono convinti che si tratta di una storia per bambini, ecco che vengono messi in scena i bambini, come interlocutori dell’ autore, i quali, ragionando da bambini abituati alle favole, fanno una previsione sbagliata. Dunque la storia non è dedicata ai bambini? Ma Collodi si rivolge, per correggere la previsione sbagliata, proprio ai bambini e cioè ai suoi piccoli lettori. Per cui i bambini potranno continuare a leggere la favola come se fosse rivolta a loro, semplicemente assumendo che sia la favola non di un re ma di un burattino. E arrivati alla fine non saranno delusi.
Eppure quell’ inizio è una strizzata d’ occhi per lettori adulti. Possibile che la favola sia anche per loro? E che loro debbano leggerla in modo diverso, ma che per capire i significati allegorici della fiaba debbano fare finta di essere dei bambini? Un inizio di tal genere è bastato a scatenare una serie di letture psicoanalitiche, antropologiche, satiriche di Pinocchio, e non tutte inverosimili. Forse Collodi voleva giocare un doppio gioco, e su questo sospetto si basa gran parte del fascino di questo piccolo grande libro. Chi è che c’ impone queste regole del gioco, e queste costrizioni? In altre parole, chi è che costruisce il lettore modello in modo che sia colui che reagisce al testo che legge nel modo più ragionevole? Ovvero, chi è che disegna il bosco in modo che qualsiasi Cappuccetto Rosso lo percorra dovrebbe comportarsi come un viandante modello, il viandante adatto per quel bosco?
L’ Autore, diranno subito i miei piccoli lettori. Ma dopo che abbiamo fatto tanta fatica a distinguere il lettore empirico dal lettore modello, dovremmo pensare all’ autore come a un personaggio empirico che scrive la storia e decide, forse per ragioni inconfessabili e note solo al suo psicoanalista, quale lettore modello occorra costruire? ”
Una delle risposte è in Edgar Allan Poe e in Gordon Pym. Sentite:
” Due puntate di quelle avventure erano state pubblicate nel 1837, sul Southern Literary Messenger, più o meno nella forma che conosciamo. Il testo iniziava con “Mi chiamo Arthur Gordon Pym” e metteva quindi in scena un Narratore in prima persona, ma quel testo appariva sotto il nome di Poe. Nel 1838, l’ intera storia appariva in volume, ma senza alcun nome dell’ autore in copertina. Al contrario appariva una Prefazione firmata A.G. Pym che presentava quelle avventure come storia vera, e avvertiva che sul Southern Literary Messenger esse erano state firmate con il nome di Mr. Poe perché la storia non sarebbe stata creduta da nessuno e dunque tanto valeva presentarla come finzione. Dunque abbiamo un Mr. Pym, autore empirico, che è il narratore di una storia vera, il quale scrive una Prefazione che fa parte non del testo narrativo ma del paratesto (con qusto nome Genette indica copertina, risvolti, introduzioni, pubblicità, recensioni, e tutto quello che ‘ circonda’ il testo vero e proprio) e Mr. Poe scompare nel fondo, diventando una sorta di personaggio del paratesto. Ma alla fine della storia, proprio dove essa si interrompe, interviene una nota finale che spiega come gli ultimi capitoli siano andati perduti in seguito alla ‘ subitanea e inquietante scomparsa di Mr. Pym’ , scomparsa che dovrebbe essere nota ai lettori grazie alle notizie fornite in proposito dalla stampa. Questa nota, non firmata (e non certamente scritta da Mr. Pym, della cui morte parla), non può essere attribuita a Poe, perché in essa si parla di Mr. Poe come di un primo curatore, che peraltro viene accusato di non aver saputo cogliere la natura crittografica delle figure che Pym aveva inserito nel testo.
A questo punto il lettore è indotto a ritenere che Pym fosse un personaggio fittizio, il quale come narratore parla non solo all’ inizio del primo capitolo, ma all’ inizio della Prefazione, la quale diventa parte della storia e non mero paratesto, e che il testo sia dovuto a un terzo, e anonimo, autore empirico; e per il lettore pù sospettoso rimane possibile il dubbio che anche Mr. Poe sia un personaggio inventato da questo terzo autore.
Chi è in tutto questo intrico testuale l’ autore modello? Chiunque sia, è la voce, o la strategia, che confonde i vari supposti autori empirici affinché il lettore modello, e l’ ho detto pochi minuti fa, da quel bosco narrativo non sappia e non voglia più uscire. Alcuni hanno deciso di restarci dentro, come Jules Verne, Charles Romyn Dake, H.P. Lovecraft, che hanno tentato di continuare la storia di Pym: o come molti critici contemporanei che sono affascinati da un narratore, Pym, che con l’ inizio del racconto (“My name is Arthur Gordon Pym”) non solo prelude al “Call me Ishmael” di Melville, il che sarebbe niente, ma sembra fare la parodia di un testo in cui Poe, prima di scrivere il Pym (o di entrarvi come personaggio) aveva fatto la parodia di un certo Morris Mattson che aveva iniziato un suo romanzo con “My name is Paul Ulric”.
Restarci dentro. Questo è un punto su cui riflettere.
C’era una volta: una modesta questione
Maggio 21, 2010Once upon a time.
La questione della lingua era faccenda che coinvolgeva tutti gli scrittori. Diciamo dai tempi di Dante ad oggi. Ma forse anche prima.
Once upon a time.
Non posso mica raccontarvela tutta. Diciamo che, nel secolo scorso, c’erano quelli del Gruppo 63 che dicevano: no trama, no personaggi (no future, mi verrebbe da aggiungere). Solo lingua. Un certo tipo di lingua. Che poi se la cantassero e suonassero fra loro, almeno molto spesso, era un fatto. Che poi nel gruppo 63 ci fosse anche Umberto Eco, che scrisse Il nome della rosa (e partì, molto probabilmente, dalla lingua), è un altro fatto ancora.
Once upon a time.
C’è una frase di Tolkien che giustamente Wu Ming 4 pone in rilievo nei commenti (al post di ieri). E la frase è questa.
“Per me il Signore degli Anelli è essenzialmente un saggio di estetica linguistica”.
Torniamo a noi. Al fantastico di casa nostra, assai attento a mappe, razze, cornici, trame. Giustamente. Cosa manca? Cosa “ci” manca? Forse proprio quel punto di partenza: in quale lingua racconto? Quale voce parlerà nella mia storia?
Per me, vale la pena di pensarci.
De bello gnocco
gennaio 22, 2010No no, fermi tutti: non è un’autodifesa, nè è una risposta a quei lettori, per lo più di sesso maschile, che sono disturbati dalla presenza di un personaggio di bell’aspetto che corrisponderebbe alla definizione di “gnocco” in Esbat e, naturalmente, in altri romanzi (per la comprensione del termine vedasi la seconda proposta del Wikizionario, grazie).
E’ un’altra cosa: vorrebbe, almeno, essere una riflessione sulla bellezza maschile nei romanzi. Nientemeno? Nientemeno. E dal momento che la cosa è impegnativa chiedo l’aiuto di Umberto Eco.
Schiocco di dita.
“Dal Pelide Achille sino alle soglie del romanticismo l´eroe è sempre stato bello, mentre da Tersite sino a più o meno lo stesso periodo brutto, orribile, grottesco o risibile è il malvagio”.
Così scrive il Professore in un articolone su aspetto fisico e romanzo su Repubblica: e ha assolutamente ragione. La virtù morale dell’eroe si riflette in automatico sulle sue sembianze. Possiamo fare qualche variante su colore di capelli e muscolatura, ma Achille è sempre stato splendido da quando il quadrisavolo di Brad Pitt – che lo avrebbe interpretato al cinema – era ancora un granello di energia che passeggiava per la via Lattea o nei Campi Elisi o dovunque si trovino le anime dei nascituri.
Ancor più ovviamente, le eroine sono belle: per Elena va a pezzi un intero mondo, le grazie di Briseide causano pasticci a non finire, per non parlare di quella rovinafamiglie di Glauce che sottrae Giasone a Medea con le note conseguenze. E ancora: quando passa Angelica un paio di eserciti di opposta fazione vanno in tilt, a Beatrice basta salutare per strada Dante per fargli concepire un viaggio nell’oltretomba, e Laura spezza per sempre il cuore di Petrarca. Mi fermo.
Chissà come mai, però, il fatto che i personaggi femminili siano stati e continuino ad essere belli non infastidisce mai nessuno. Anzi, quando si verifica l’eccezione risulta essere così sconvolgente da venir citata in continuazione. L’eccezione è la povera Fosca di Iginio Tarchetti.
Schiocco di dita.
“Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna! Come vi sono beltà di cui è impossibile il dare una idea, così vi sono bruttezze che sfuggono ad ogni manifestazione, e tale era la sua. Né tanto era brutta per diretti di natura, per disarmonia di fattezze, – ché anzi erano in parte regolari, – quanto per una magrezza eccessiva, direi quasi inconcepibile a chi non la vide; per la rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora così giovane. Un lieve sforzo d´immaginazione poteva lasciarne travedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una sporgenza spaventosa, l´esiguità del suo collo formava un contrasto vivissimo colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, folti, lunghissimi, quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora la sproporzione. «Tu non sai cosa voglia dire per una donna non essere bella – dice Fosca. Per noi la bellezza è tutto. Non vivendo che per essere amate, e non potendolo essere che alla condizione di essere avvenenti, l´esistenza di una donna brutta diventa la più terribile, la più angosciosa di tutte le torture. Nella vita dell´uomo non vi è miseria paragonabile a questa. L´uomo, ancorché deforme, ancorché non amato, ha mille divagazioni, ha mille compensi; la società gli è indulgente; non potendo mirare all´amore, egli mira all´ambizione; ha uno scopo; ma la donna non può uscire dalla via che le hanno tracciato il suo cuore e la sua vanità, non può tendere ad altro fine che a quello di piacere e di essere amata. Non vi è che la maternità che possa compensarla qualche volta della privazione dell´amore; ma questa ne è il frutto, ed è spesso negata alla bruttezza».”
Eh sì, il professore fa bene a citare Fosca. Quante altre eroine non dico orribili, ma almeno bruttarelle contate nei romanzi? Io poche, a meno che non siano vecchie e cattive (anche Fosca non è un concentrato di virtù, a ben vedere). Anche nel fantastico: Annie Wilkes di Misery è decisamente brutta, ma è la cattiva e quindi non conta. Carrie si trasforma in adolescente passabile nel ballo fatale. Fanno eccezione, in King, due donne normalissime come Dolores Claiborne e Lisey (La storia di Lisey). E Tammy Lauper, la “Wilkes buona” de Il canyon delle ombre di Clive Barker. Se avete altri nomi, fateli pure, io segno.
Dunque, i personaggi positivi dei romanzi sono sempre belli e i cattivi sono sempre brutti? Eh no. Non sempre.
Schiocco di dita.
“…con la gothic novel la prospettiva si ribalta: non solo inquietante e tremendo appare l´eroe, ma anche l´antieroe, nella sua cupezza, diventa se non affascinante almeno interessante. Torvo e non di questa terra è il ceffo che balena sotto il suo tenebroso cappuccio, dirà Byron del suo Giaurro (…) E di un altro spirito incupito; Ann Radcliffe dirà nel Confessionale dei penitenti neri che la sua figura faceva impressione, era alta, e, benché estremamente magra, le sue membra erano grandi e sgraziate e, come andava a gran passi, avvolto nelle nere vesti del suo ordine, v´era qualcosa di terribile nel suo aspetto, qualcosa di quasi sovrumano. (…) Il Vathek di Beckford era d´aspetto avvenente e maestoso, ma, quando andava in collera, uno dei suoi occhi diventava così terribile che non si poteva sostenerne lo sguardo, e lo sventurato sul quale quell´occhio si posava cadeva riverso e talvolta moriva all´istante”.
Oh, sorpresa! Anche il villain, o il semi-villain, o l’antagonista, diventa affascinante da un certo periodo in poi. Quindi non c’è più, secondo il Professore, una corrispondenza tra beltà d’animo e beltà fisica.
Poi, tutto precipita, e l’eroe diventa brutto. Per dire le cose come stanno, fa decisamente schifo. Arriva, insomma, Victor Hugo: e con lui Quasimodo e Gwynplaine, l´Uomo che Ride.
Schiocco di dita.
“La bellezza universale, che l´antichità diffondeva solennemente su ogni cosa, non era priva di monotonia: la medesima impressione può venire a noia a forza di essere riproposta. Il sublime accostato al sublime contrasta a fatica, e bisogna prendere una pausa da tutto, anche dal bello. Sembra invece che il grottesco sia una sosta, un termine di paragone, un punto di partenza da cui elevarsi verso il bello con una percezione più fresca e più partecipe. La salamandra fa risaltare l´ondina; lo gnomo rende più bello il sisifo. Il bello non ha che un tipo: il brutto ne ha migliaia. Il bello, umanamente parlando, è solamente la forma presa nei suoi tratti più semplici, nella sua più assoluta simmetria, nella sua più intima armonia con la nostra struttura. Ci propone così sempre una completezza d´insieme, ma limitata come noi. Quello che invece definiamo il brutto è un aspetto di un grande insieme che ci sfugge e che non si armonizza con l´uomo ma con la creazione tutta”.
Qui si ferma il Professore e qui arriva la riflessione. Dopo la rivoluzione di Hugo, la bellezza maschile dell’eroe non è più necessaria al romanzo: anzi. Poi, però, arriva Tolkien. Arriva il fantastico. E la bellezza torna ad essere molto importante, nonchè motivata: gli elfi sono fisicamente belli perchè il loro mondo è fatto di bellezza, per esempio. Ma la faccio breve. Di fatto, il fantastico ripropone – mi pare – gli antichi canoni, e dal gotico riprende anche, in molti casi, il fascino dell’antagonista malvagio.
Perchè? Perchè è una narrazione (apparentemente) non realistica? Perchè è una narrazione mitica?
Non ho la risposta, ma continuo a cercarla. Quello che mi incuriosisce è che il ritorno della bellezza maschile viene spesso deprecato. Mentre la bellezza femminile (spesso associata all’ocaggine, e si può essere oche anche impugnando alabarde e comandando la carica dei centouno) non è mai messa in discussione. Professore, che ne pensa?
Schiocco di dita che, al momento, non sortisce effetto.
Confessioni di una puntinista
ottobre 16, 2009E va bene. Lo dice anche Umberto Eco, nel Secondo diario minimo. Ovvero:
“Quanto siano sciagurati i puntini ce lo dice questa modesta serie di variazioni che raccontano che cosa sarebbe accaduto alla nostra letteratura se gli scrittori fossero stati timidi.
“Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene trenta anni le possette…parte Sancti Benedicti”.
“Laudato si’, mi’ Signore, per…sora luna e le stelle.”
“Come a la selva…augello in la verdura”.
“S’i fosse…foco, arderei lo mondo.”
“Nel mezzo…del cammin di nostra vita.”
“Santissimo e carissimo e…dolcissimo padre in Cristo dolce…Gesù.”
“Qual sulle trecce bionde ch’…oro forbito e…perle, eran quel dì a vederle.”
“Era questo frate Cipolla di persona piccolo, di pelo rosso e lieto nel viso e il miglior…brigante del mondo.”
E via via, sino a “L’anno…moriva, assai dolcemente” e “Io ero, quell’inverno, in preda ad…astratti furori”.”
Però l’antipuntinismo a volte è francamente esagerato. Ieri, su aNobii, ho letto una recensione a Battle Royale che lo faceva a pezzi causa puntini di sospensione. E tutto il resto, dove lo mettiamo? Meccanismo, personaggi, emozioni, coerenza, lucidità, idea?
Parlo anche pro domo mea: sono una puntinista, e lo confesso. Mi sto disintossicando dopo il primo editing di Esbat, nel senso che cerco di metterne meno e di collocarli nei punti giusti, per non inflazionarli. Però va detta una cosa: quando li uso, lo faccio per sottolineare l’esitazione di un personaggio ad avvicinarsi a un determinato concetto, a una parola, a una presa di coscienza. Non perchè siano graficamente significativi.
…credo.
Dire bugie
giugno 30, 2009“Proprio perché ci parla di cose inventate, che pertanto non si sono mai verificate nel mondo reale, una asserzione romanzesca dovrebbe sempre essere falsa. Eppure noi non accusiamo Omero o Cervantes di essere stati dei bugiardi”.
Ecco, sulla prima pagina di Repubblica c’è Umberto Eco. Meno male.
Ps. Patassa mi ha fatto una bella intervista e l’ha pubblicata sul suo blog.
Quaranta consigli di Eco
agosto 1, 2008Il Professore si diverte! Ho trovato sul sito del Mestiere di scrivere un intervento di Umberto Eco che mette in parodia i consigli delle scuole di scrittura. Una delizia. Leggete!
1. Evita le allitterazioni, anche se allettano gli allocchi.
2. Non è che il congiuntivo va evitato, anzi, che lo si usa quando necessario.
3. Evita le frasi fatte: è minestra riscaldata.
4. Esprimiti siccome ti nutri.
5. Non usare sigle commerciali & abbreviazioni etc.
6. Ricorda (sempre) che la parentesi (anche quando pare indispensabile) interrompe il filo del discorso.
7. Stai attento a non fare… indigestione di puntini di sospensione.
8. Usa meno virgolette possibili: non è “fine”.
9. Non generalizzare mai.
10.Le parole straniere non fanno affatto bon ton.
11.Sii avaro di citazioni. Diceva giustamente Emerson: “Odio le citazioni. Dimmi solo quello che sai tu.”
12.I paragoni sono come le frasi fatte.
13.Non essere ridondante; non ripetere due volte la stessa cosa; ripetere è superfluo (per ridondanza s’intende la spiegazione inutile di qualcosa che il lettore ha già capito).
14.Solo gli stronzi usano parole volgari.
15.Sii sempre più o meno specifico.
16.L’iperbole è la più straordinaria delle tecniche espressive.
17.Non fare frasi di una sola parola. Eliminale.
18.Guardati dalle metafore troppo ardite: sono piume sulle scaglie di un serpente.
19.Metti, le virgole, al posto giusto.
20.Distingui tra la funzione del punto e virgola e quella dei due punti: anche se non è facile.
21.Se non trovi l’espressione italiana adatta non ricorrere mai all’espressione dialettale: peso e! tacòn del buso.
22.Non usare metafore incongruenti anche se ti paiono “cantare”: sono come un cigno che deraglia.
23.C’è davvero bisogno di domande retoriche?
24.Sii conciso, cerca di condensare i tuoi pensieri nel minor numero di parole possibile, evitando frasi lunghe — o spezzate da incisi che inevitabilmente confondono il lettore poco attento — affinché il tuo discorso non contribuisca a quell’inquinamento dell’informazione che è certamente (specie quando inutilmente farcito di precisazioni inutili, o almeno non indispensabili) una delle tragedie di questo nostro tempo dominato dal potere dei media.
25.Gli accenti non debbono essere nè scorretti nè inutili, perchè chi lo fà sbaglia.
26.Non si apostrofa un’articolo indeterminativo prima del sostantivo maschile.
27.Non essere enfatico! Sii parco con gli esclamativi!
28.Neppure i peggiori fans dei barbarismi pluralizzano i termini stranieri.
29.Scrivi in modo esatto i nomi stranieri, come Beaudelaire, Roosewelt, Niezsche, e simili.
30.Nomina direttamente autori e personaggi di cui parli, senza perifrasi. Così faceva il maggior scrittore lombardo del XIX secolo, l’autore del 5 maggio.
31.All’inizio del discorso usa la captatio benevolentiae, per ingraziarti il lettore (ma forse siete così stupidi da non capire neppure quello che vi sto dicendo).
32.Cura puntiliosamente l’ortograffia.
33.Inutile dirti quanto sono stucchevoli le preterizioni.
34.Non andare troppo sovente a capo. Almeno, non quando non serve.
35.Non usare mai il plurale majestatis. Siamo convinti che faccia una pessima impressione.
36.Non confondere la causa con l’effetto: saresti in errore e dunque avresti sbagliato.
37.Non costruire frasi in cui la conclusione non segua logicamente dalle premesse: se tutti facessero così, allora le premesse conseguirebbero dalle conclusioni.
38.Non indulgere ad arcaismi, apax legomena o altri lessemi inusitati, nonché deep structures rizomatiche che, per quanto ti appaiano come altrettante epifanie della differanza grammatologica e inviti alla deriva decostruttiva – ma peggio ancora sarebbe se risultassero eccepibili allo scrutinio di chi legga con acribia ecdotica – eccedano comunque le competente cognitive del destinatario.
39.Non devi essere prolisso, ma neppure devi dire meno di quello che.
40. Una frase compiuta deve avere.