“Le chef-d’ceuvre inconnu”, a cui Balzac lavorò dal 1831 al 1837, all’inizio aveva come sottotitolo «conte fantastique» mentre nella versione definitiva figura come «étude philosophique». In mezzo era successo che — come lo stesso Balzac dichiara in un altro racconto — «la littérature a tue le fantastique». Il quadro perfetto del vecchio pittore Frenhofer nel quale solo un piede femminile emerge da un caos di colori, da una nebbia senza forma, nella prima versione del racconto (1813 in rivista) viene compreso e ammirato dai due colleghi Lo scrittore — parlo dello scrittore d’ambizioni infinite, come Balzac — compie operazioni che coinvolgono l’infinito della sua immaginazione o l’infinito della contingenza esperibile, o entrambi, con l’infinito delle possibilità linguistiche della scrittura. Qualcuno potrebbe obiettare che una singola vita, dalla nascita alla morte, può contenere solo una quantità finita d’informazione: come possono l’immaginario individuale e l’esperienza individuale estendersi al di là di quel limite? Ebbene credo che questi tentativi di sfuggire alla vertigine dell’innumerevole siano vani. Giordano Bruno ci ha spiegato come lo «spiritus phantasticus» dal quale la fantasia dello scrittore attinge forme e figure è un pozzo senza fondo; e quanto alla realtà esterna, la “Commedia umana” di Balzac parte dal presupposto che il mondo scritto possa costituirsi in omologia del mondo vivente, di quello di oggi come di quello di ieri e di domani.
Il Balzac fantastico aveva cercato di catturare l’anima del mondo in una singola figura tra le infinite immaginabili; ma per far questo doveva caricare la parola scritta d’una tale intensità che essa avrebbe finito per non rimandare più a un mondo al di fuor di essa, come i colori e le linee del quadro di Frenhofer. Affacciatosi a questa soglia, Balzac s’arresta, e cambia il suo programma. Non più la scrittura intensiva ma la scrittura estensiva. Il Balzac realista cercherà di coprire di scrittura la distesa infinita dello spazio e del tempo brulicanti di multitudini, di vite, di storie.
Qui sopra parla Italo Calvino. Quello che viene definito “l’ultimo Calvino”, quello delle lezioni americane. Ho scelto questo brano perchè forse può aiutarci a capire quale sia stato lo snodo che porta a “minimizzare” il fantastico. La letteratura ha ucciso il fantastico, sosteneva Balzac. Anche qui, sono passati secoli. Ma quella “omologia” è considerata ancora una via maestra della scrittura? E come? E quanto?
Fermiamoci qui, per ora.
aprile 21, 2010 alle 9:27 am |
Rispondere a questo post è come digerire un diplodoco obeso.
Ci arriverò per gradi.
Per ora dirò questo. Balzac era uno scrittore. Per lui scrivere era un modo per capire il mondo, affascinandosi, e affascinando gli altri.
Ha provato con il fantastico, e c’è riuscito fino a un certo punto.
Poi ha provato con altro.
Faccio un altro esempio, un esempio nostro. Zavattini, il padre del “neorealismo”. Quanti sanno che Zavattini scriveva racconti e romanzi fantastici, prima di approdare alla scrittura per il cinema? “Miracolo a Milano” non è una ‘mattata’ dello ZAZA nazionale: è un ritorno al suo vecchio modo di raccontare. In mezzo c’era stata la guerra: e c’era l’urgenza di raccontare altro, e di raccontarlo in modo nuovo, fuori dai teatri, fuori dagli stessi schemi narrativi.
Così Zavattini cambia; cambia soggetti e cambia modi narrativi. Capisce che la scrittura per essere cinematografica deve guardare al romanzo picaresco, all’accumuluo “apparentemente casuale” di eventi. Quindi: diventa ‘realista’ (ma di un realismo che nessuno pratica più dalle nostre parti).
Sconfessando la fiaba, il sogno, il mito? No. Tanto è vero che ci da quella meraviglia che è Miracolo a Milano. Tanto è vero che tra gli sceneggiatori ‘neorealisti’ suoi colleghi c’era Fellini.
Forse è per questo che auspico (dentro di me) un NeoFantastico Italiano.
Perchè gli impianti narrativi realisti sono logori, stracchi, marci; soprattutto al cinema, ma anche in letteratura. Che è la ragione personale della mia tristezza quando leggo del “trionfale ritorno del neorealismo in letteratura”; come se questi ci avesse mai lasciati, come se il ‘realismo’ non fosse diventato un ospite pigoro e indiscreto, rimasto troppo a lungo, ometto supponente, falso, obeso di applausi stanchi, formula per tutte le stagioni.
Penso a Zavattini perchè penso alle generazioni che cercano nuove strade. Non sono sicuro di condividere il punto di vista dei Wu Ming. Ma almeno sento in loro una voce che non parla di Neo-Neo-Neo Realismo come l’immensa novità del (nuovo) secolo.
Però che sia chiaro questo: le strade nuove le cercano, e le vedono, gli scrittori, non i critici. I quali di solito guardano solo all’esistente. Gli scrittori guardano a ciò che ancora non esiste, e lo fanno esistere con la sola forza della loro immaginazione. Aveva ragione Wilde: lo scrittore deve educare il critico.
Ben venga dunque il realismo, se è rottura, se è ricerca, come in Balzac. Ma il suo status quo era la letteratura romantica, e gotica. Il NOSTRO status quo, qui Italia, adesso, anno 2010, è proprio il neo-neo-neo(in realtà ‘paleo’)realismo. Che DEVE essere distrutto, fatto a pezzi, ingerito, digerito, cagato, letamizzato: per fiorire in qualcosa d’altro.
Fino ad allora, a bien tutti.
aprile 21, 2010 alle 9:34 am |
Concordo Melmoth, eccome.
Per questo insisto da giorni sul punto. Il rischio è che si finga di aggrapparsi al fantastico per portarlo nei gorghi del paleorealismo.
aprile 22, 2010 alle 9:32 am |
Bellissime riflessioni. Da cogitare un po’.