La tartaruga non ci può aiutare

Discorso difficile.
Riflettevo sulle storie, tanto per cambiare. E mi chiedevo perchè da ultimo,  a dispetto dell’ambientazione fantastica, mi sembrassero, almeno in grande numero, così “chiuse”.
Provo a spiegarmi.
Di cosa parliamo quando parliamo di sopramondo (perdono a uncle Stevie per il piccolo furto)? Parliamo – o almeno dovremmo – dei massimi sistemi. Ovvero di tutto ciò di cui la mente umana è andata in cerca. La tartaruga che sorregge l’universo (e chi sorregge la tartaruga? L’elefante di Anassimandro? Oppure?).
Bene, è stato così, per molto tempo. Frankenstein varcò i limiti, Hyde scese nel lato oscuro, Poe mischiò il sonno e la veglia, Lovecraft precipitò nello sconosciuto Kadath, King trovò la tartaruga.
E adesso? Non è tutto così domestico? La scuola, la famiglia, l’amore. L’amore, la famiglia, la scuola, le amiche. Dove sta la tartaruga?
Naturalmente, sto parlando di tendenze e non di eccezioni.
Naturalmente, non conosco il perchè di tutto questo. Però ho letto con interesse e costernazione la discussione dei Wu Ming e sono rimasta folgorata da questa riflessione (di Wu Ming 4):

“Senza una prospettiva, senza un’idea generale nella quale inscrivere il particolare, non resta che il microscopico, l’individuo solo contro tutti, intento a difendere se stesso e le persone che lo circondano; resta cioè il familismo amorale italico ridotto sempre più a una dimensione mononucleare, alla micragnosità del vivere bestiale. La Lega è prima di tutto questo. Berlusconi è soprattutto questo. Se oggi Feltri può scrivere che è bene sparare ai pacifisti perché invece di starsene a casa a pensare ai fatti propri vanno a rompere i coglioni agli altri, ecco, è perché si è fatto della difesa del proprio particolare l’unica prospettiva esistenziale auspicabile. Si è cioè scardinata qualsiasi idea di società, che si fonda invece sul principio del comune.
Ricordate cosa diceva la Thatcher? “Non esiste la società. Esistono soltanto gli individui e le famiglie”. Secondo me è l’affermazione più nichilista, terroristica e totalitaria che sia mai stata fatta nel corso del Novecento”.

C’entra con noi? C’entra con la tartaruga?
Forse sì. Forse sì.

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20 Risposte to “La tartaruga non ci può aiutare”

  1. Melmoth Says:

    Vero. Però il tuo discorso corre un grande rischio: quello di confondere il “la visione del mondo” che esiste nella realtà, e “la visione del mondo” che esiste in letteratura. Non sono la stessa cosa.

    Però sono daccordo su una cosa; senza andare nella metafisica io sento il bisogno di narrazioni che abbiano il coraggio di avere una visione del mondo. Mai esplicita e possibilmente mai analitica (da ‘analuo’: che spezza i legami, appunto) ma espressiva, viva, che sia metafisica, cioè sostegno assoluto, del mondo narrato. E’ la ragione per cui detesto metà di quello che erroneamente si chiama ‘minimalismo’: non perchè non ci sono grandi gesti, ma perchè i gesti piccoli non risuonano nel cielo interiore dell’autore, nel suo cosmo (come avviene invece per Carver).

    (Bel titolo by the way).

  2. Lara Manni Says:

    Certo, non sono la stessa cosa. Ma se io, nel mondo reale, mi sono abituato ad avere una visione “piccola”, come farò ad averne una “grande” in quello letterario? Ovvero: perchè molte delle scrittrici neogotiche (soprattutto donne) si concentrano su questo concetto: giovane eroina deve trovare fidanzato (non importa la specie sovrannaturale)? Ovvero ancora, e sempre in riferimento a The Witcher: perchè molti autori neo-non-so-cosa si concentrano su questo concetto: giovane eroe figo affronta e risolve una serie di quest, non importa perchè, nè il contesto?

    Allora, non dico che ogni volta che si scrive occorre svelare su cosa poggiano le zampe della tartaruga: però almeno uno squarcio è – sarebbe – cosa necessaria. Credo.

  3. Andrea Says:

    Discorso molto difficile! In effetti, come scrive WM4, viviamo in un epoca di brutale individualismo e questo si riflette anche nella nostra letteratura. Facendo i dovuti distinguo, questo ripiegamento su se stesso della letteratura italiana potrebbe forse indicare che si è appannata in molti autori la dote principale di un artista: la sua sensibilità. E’ grazie a questa dote che un artista, anche abituato dalla vita quotidiana a confrontarsi con una realtà “piccola”, riesce ad avere una visione letteraria “grande” (tu e WM4 vi siete accorti di questo “deficit” per un motivo molto semplice: entrambi avete “lo shinig” 😉 ).Che poi questa riecheggi nascosta in una storia intima o in una corale, secondo me, poco importo, ma forse mi sbaglio. Personalmente ho sempre preferito romanzi che avessero una “cornice” grande che contenesse tante storie “piccole”: questa combinazione “strutturale” mi pare funzioni (ma sì, generalizzo ancora un po’!) abbastanza bene.

  4. Melmoth Says:

    Questo ripiegamento su se stessi della nostra letteratura dura da trent’anni. Trenta. E non parliamo del cinema se non scoppio a piangere. L’unica differenza è che, finalmente, qualcuno comincia a parlarne in pubblico. Usando una metafora simil-King mi fa un po l’effettto di qualcuno che entra in una stanza irrespirabile e per primo ha il coraggio di dire: “Ehi, ma qualcuno ne ha mollata una?”
    Assafa’maronna, come dicono dalle mie parti.

  5. Lara Manni Says:

    Ma infatti il problema è la cornice. O, se preferisci, lo sguardo lungo. Insomma, raccontare sapendo che il mondo (non uso l’aggettivo reale) non è circoscritto al proprio io. Quello che intendo dire è che si può raccontare qualcosa di gigantesco partendo da una storia personale: esempio clamoroso, di cui parla oggi Citati su Repubblica, Il conte di Monte Cristo. Certo, è la vicenda che riguarda la vendetta di un singolo. Ma la cornice è il mondo, e lo sguardo è amplissimo.
    A maggior ragione, il discorso dovrebbe valere sul fantastico, che è creatore di mondi e sopramondi. Ultimamente, non è – genericamente – così. E non è solo, a mio parere, una questione di mercato: è una questione del sentire del singolo autore o autrice.

    Ps. Avessi un decimo dello shining di Wu Ming 4, potrei morire felice. 🙂

    Ps ancora. Melmoth, ottima metafora. 🙂

  6. palanmelen Says:

    Mah. Come si diceva? Guardarsi l’ombelico?
    A me piace così tanto guardare gli ombelichi.
    Anche lì si trovano tartarughe, sai.
    Soprattutto se sono ombelichi di bei ragazzi.
    Ehm.
    Beh, diciamo che in una tendenza ci sono realizzazioni e realizzazioni? Anche Kafka rimaneva sul domestico ne “la metamorfosi”, ma insomma.
    Poi, sempre la cosa dei ricorsi della storia. Non siamo nell’Atene del V secolo, più del II. Però, ipotesi, se fossimo nel V non avremmo questo grande bisogno di evadere che porta al fermento del fantastico.
    Insomma, può darsi che siano due aspetti della stessa medaglia?

  7. Lara Manni Says:

    Oh, ci sono stati ombelichi femminili su cui sono crollati mondi, dalle parti delle Porte Scee. 🙂
    Il punto non è la presenza o assenza di ombelichi: è, appunto, la scelta dell’inquadratura. Immaginati la vicenda di Paride e Elena raccontata con l’occhio claustrofobico (claustrofobico non in senso letterale: Kafka non è claustrofobico in QUEL senso) e finiamo dalle parti della nuova commedia italiana (sì, al cinema, Melmoth).

    La faccenda dei ricorsi è interessante. Però, ecco il punto: non sono sicura che il fantastico nasca da un’esigenza di evasione. Secondo me nasce per esigenza di narrazione.

  8. Andrea Says:

    Trent’anni di ripiegamento della Letteratura italiana: crudele ma innegabile. La cornice è il mondo lo sguardo deve essere amplio: semplice e giusto. Ma a volte in un ombelico si nascondono interi mondo: saggio e impeccabile. Parliamo allora, se vi va, del carattere universale delle letteratura italiana (fantastica o no poco importo, o mi sbaglio?): oggi che società racconta o dovrebbe raccontare? E poi ancora, considerando i continui scambi e le influenze che da tempo ci sono tra le varie letterature europee (anche se sarebbe meglio dire occidentali), ha ancora senso parlare di letteratura italiana? Non dovremmo cominciare a interrogarci sulla società europea? Quello che succede alla letteratura di casa nostra non succede anche in Francia, Germania, Inghilterra, ecc…?

  9. Lara Manni Says:

    All’ultima domanda temo che la risposta sia no. A quanto mi risulta, la letteratura italiana soffre di snobismo congenito almeno dal secolo scorso, e quella che dovrebbe essere armonia fra ricerca linguistica e trama si trasforma in una forbice. O curi la lingua o curi la storia. Palle, e altrove mi sembra venga dimostrato molto bene.
    Quanto alla società da raccontare: penso che, lo si voglia o no, si racconti sempre quella in cui viviamo. Ma ecco che torna a proposito il discorso di Wu Ming 4. Laddove sociale coincide con individuale, siamo nei guai. Non solo letterariamente.

  10. Wu Ming 4 Says:

    Scusate, più che shining… mi fischiavano le orecchie 🙂 E poi sono in convalescenza post-operatoria, quindi ho un sacco di tempo a disposizione.

    A me pare che le cose siano piuttosto evidenti. Ombelicale o panoramica, la letteratura è visione del mondo o non è un bel niente. Anche quella che ne fornisce una inconsapevolmente, come segnala Lara Manni.
    Non basta scrivere di mondi fantastici, di demoni, draghi o mezzelfi, per eludere il minimalismo. Esattamente come scrivere di elfi, nani e orchi, può essere un modo efficacissimo di fornire una visione su “questo” mondo e addirittura una presa di posizione etica in merito.
    In teoria immaginare un mondo da capo (si fa per dire, ovviamente) presupporrebbe un approccio fondativo alla letteratura, cioè epico, ma non è affatto scontato. La mezzelfa può tranquillamente diventare l’alter ego di una qualsiasi Barbie girl da serial americano (o peggio, italiano) e gli orizzonti esistenziali – fatemi dire morali – possono restare angustissimi anche se si descrivono praterie sconfinate e duelli all’ultimo sangue.
    Uso la parola “morale” sapendo il rischio che corro. Non lo intendo ovviamente come sinonimo di adesione o aderenza a un sistema di valori dati, bensì in termini letterali, come “ciò che riguarda la vita pratica considerata nel suo atto fondamentale di scelta tra bene e male, giusto e ingiusto”, ovvero come messa in discussione dei valori stessi, senza eludere l’elemento centrale: la necessità della scelta.
    Come dice Albus Silente: “Non sono le qualità personali a fare la differenza, ma le scelte che facciamo” (scusate, cito a memoria dal film rivisto ieri con mio figlio). Questo è ciò che definisce il coraggio, cioè la caratteristica fondamentale per un eroe o un’eroina. Il coraggio non consiste nell’affrontare l’impresa, la quest in se stessa, ma nell’affrontare un dilemma e quindi nel compiere una scelta, attraverso la quale si stabilisce un principio etico per sé, che però la rende invitabilmente esemplare.

    Ora nell’intervento sul blog di WM che Lara Manni ha ripreso, portavo ad esempio un discorso retorico che oggi è martellante: “Nulla di buono ti puoi auspicare dall’umanità. Puoi soltanto difendere il tuo particolare. Trova un’anima gemella (possibilmente benestante) e proteggi te stesso e i tuoi figli con le unghie e con i denti dalle minacce del mondo esterno”.
    Ecco per me questa è la voce di Saruman. E’ il segno dell’inciviltà, della disumanizzazione che avanza e dalla quale personalmente non credo che nessuno possa dirsi esente. Il consumismo turbocapitalista si avvale di questa visione del mondo; la rigenderizzazione forzata dei bambini ne è forse un derivato diretto; etc. etc.
    Minacce serie, dalle quali vale senz’altro la pena difendere i propri figli. E l’unico modo di farlo è insegnando loro a scegliere. A capire che non vale tutto, che non si può tenere dentro tutto e il contrario di tutto, che esiste qualcosa di meglio e che per ottenerlo potrebbero essere richieste decisioni anche dolorose, perché, nonostante le apparenze e la propaganda martellante suggeriscano il contrario, c’è del buono nel mondo e vale la pena battersi per questo.
    Il riferimento di Melmoth allo sconfortante stato del cinema italiano mi fa venire in mente che Fofi l’altro giorno ha accusato le sceneggiature eternamente concilianti di Rulli e Petraglia di essere immorali. Raramente sono d’accordo con le posizioni di Fofi, ma questa volta con me sfonda una porta aperta e non ho problemi ad ammetterlo. L’immoralità è appunto voler conciliare tutto, limitare l’orizzonte del possibile e dell’auspicabile, eludere il problema del male nella sua banalità, trovando una ragione per ogni cosa e fondamentalmente conciliando le particolari ragioni di tutti. Ed è certo che ogni cosa ha una ragione, altrimenti scegliere sarebbe facile, mentre invece non lo è affatto, eppure dobbiamo.
    Ecco viviamo in tempi cupi, e se non è semplice pronunciare un “Preferirei di no”, figuriamoci tenere in piedi un’idea epica della letteratura, cioè ampia e fondativa (a prescindere dall’ambientazione e dall’argomento trattato). Né moralisticamente si può condannare chi si accomoda sulla love story tra il vampiro darkettone e la teenager problematica o tra la principessa debitamente emancipata e il principe azzurrognolo.
    Tuttavia è chiaro che una differenza c’è. Per chi ne ha consapevolezza si tratta, appunto, anche di una scelta.
    Molte scuse per la lunghezza. Davvero. Colpa del cattivo stato di salute e della solitudine domestica, senz’altro.

  11. Andrea Says:

    Allora è vero: lo shining, esiste? 🙂 “La necessità di una scelta”, secondo me un’espressione bellissima: un ottimo esempio di quello che può produrre la sensibilità di un artista. Mi ha ricordato il “Viandante sul mare di nebbia” di Friedrich (http://bit.ly/116aeY). Non so voi, ma io mi fermo un po’ a guardare la nebbia e a riflettere.

    PS: buona convalescenza WM4

  12. Mele Says:

    A me viene in mente The Patriot.

  13. Lara Manni Says:

    Wu Ming 4, anzitutto auguri per la convalescenza, ma io mi auguro che tu abbia spesso tempo libero per fare interventi come questo, anche se per altri motivi. 🙂
    E sì, sì, sì. La voce di Saruman: è come se tutto – o la maggior parte di quel che sto leggendo ora, almeno – fosse chiuso nella torre. Anzi: come se lo sguardo di chi dovrebbe narrare fosse fisso sul Palanthir ad osservare la stessa, piccola immagine. Casa e famiglia: anche se la casa è un palazzo e la famiglia ha i canini aguzzi. E il punto non è, come dicevi, la condanna: è indicare le alternative. E’ farle, praticarle, queste alternative.
    Esempio: Il porto degli spiriti “sembra” la storia di un padre in cerca della figlia scomparsa. In realtà è la storia, molto più antica, di una comunità e del suo rapporto con il mare, e di come quella comunità è stata cambiata proprio dalla voce di Saruman.
    Grazie, di cuore.

  14. Sir Robin Says:

    Vero, Lara. Non si vuole parlare più della tartaruga e se lo si fa non si riesce a trasmetterne l’importanza fondante. La tendenza che metti in luce è senza dubbio presente e molto preoccupante. Spero di non andare eccessivamente OT ma tutto questo mi fa venire in mente “La Strada” di McCarthy. Chiedo venia ma non ho ancora letto il libro, posso parlare solo del film che ho visto l’altro ieri (con qualche problema per il mio stomaco).
    Il mondo è esploso e non esiste più l’intimità familiare, c’è solo la strada. Non si può più tornare a casa perché la casa è il luogo della morte. Si può solo camminare per provare a cercare un domani che forse neanche esiste e si può farlo solo lungo la strada che è il luogo delle scelte. Chi decide di non scegliere, infatti, decide di morire per la paura di essere corrotto da un’umanità brutale. Ma anche in un mondo finito, non tutto è lecito, perfino quando ne va della stessa esistenza: si può dare l’alternativa di rischiare di morire di fame piutosto che diventare cannibali.

    Forse la metto giù pesante ma per me McCarthy ci vuol dire che se si prescinde dall’ambientazione da dopobomba il cannibalismo (nel senso di assenza di qualsivoglia scrupolo) è parte integrante del nostro quotidiano presente: tutto è lecito per chi metta in prima posizione la prosperità individuale. Ma, parlando dell’oggi, chi ha la possibilità di sentirsi felice e appagato almeno all’interno della sua cerchia di parenti e amici o conoscenze, rappresenta un numero sempre più esiguo della società: il famoso assottigliamento della classe media. E questo lo porta a difendere con le unghie e con i denti quello che ha. Fuori dalla porta, l’umanità continua ad essere percepita come una alterità problematica. Hic sunt leones, altro che tartarughe, ogni mezzo è lecito.
    Lo sbandieramento di una cultura (pseudo) liberista sana e salutare che continuamente ci viene ammannita quasi sempre da chi fa mostra di essere entusiasta della vita, col sorriso sulle labbra e ‘col sole in tasca’ nasconde, neanche troppo bene, una bieca cultura della prevaricazione.

  15. Wu Ming 4 Says:

    @Sir Robin: condivido pienamente la tua lettura – nel mio caso del romanzo dato che non ho visto il film. McCarthy porta l’etica al grado zero: la via facile è il cannibalismo, procurarsi carne laddove c’è. La via più difficile è escogitare qualunque alternativa all’homo homini lupus. Ed è la scelta che il padre insegna al figlio, è ciò che divide il bene dal male, i “buoni” dai “cattivi”. C’è insomma chi in nome della sopravvivenza personale è disposto a superare una linea e chi invece pensa che superando quella linea la vita non valga la pena di essere vissuta, sia semplicemente perdita di sé. E mi sembra altresì evidente che McCarthy parli della barbarie di oggi. Non per niente stiamo parlando di uno dei più grandi scrittori americani viventi.

  16. Lara Manni Says:

    Anche io parto soltanto dal romanzo, anche se voglio vedere al più presto il film. Quel che ho trovato straordinario ne La strada è che “i fatti” non sono mostrati: eppure le conseguenze dell’apocalisse ci dicono sui medesimi molto di più di pagine e pagine di effetti speciali. Lampi all’orizzonte. Finito. Ora, occorre appunto scegliere (e l’ombra della tartaruga è ben presente nella scelta del padre).
    Avete più che ragione: McCarthy parla di noi. Esattamente come King in The Dome: dove il riferimento è più dettagliato, forse meno incisivo, ma mozza comunque il fiato. Siamo sotto la cupola: e quando questo avviene, diventiamo bestie.
    Mi è capitato, in questi giorni, di imbattermi on line in ragazzi che guardano La pupa e il secchione. Cosa c’entra? C’entra molto, secondo me. Mentre io esternavo il mio orrore, loro mi rispondevano “che male c’è a farsi due risate?”. Il problema è che a forza di ridere siamo finiti sotto la cupola, o sulla strada, o davanti al mare ghiacciato di Lindqvist.
    Quando si riesce, almeno, a narrarlo, io provo, se non consolazione, la sensazione di non essere sola. E’ tantissimo, credo.

  17. Melmoth Says:

    …mumble mumble, come diceva zio Paperone.

    Pensavo a un romanzo che ho letto recentemente.
    In quel romanzo un personaggio ‘positivo’ fa una scelta sbagliata, insomma sceglie la parte di Randall Flagg (sempre per rimanere sul Kinghiano). Ecco, alla fine del romanzo si scopre che quella del personaggio “era una finta” per confondere il bad guy ed avere la meglio su di lui. E su di noi, aggiungerei. Devo dire altro su come mi sono sentito chiudendo il capitolo?

    ‘Morale’ in narrativa vuol dire: scelte. Scelte vere che producono effetti dentro di noi e fuori di noi. Più è vasto il mondo interiore dell’autore, più queste scelte riverberano, come onde in uno stagno. Penso alla filosofia della disperazione di Dethenor nel Lord of the rings; e penso ai compromessi ributtanti di ‘Bel Amì’.

    Uno è un romanzo ‘fantastico’ e un altro un romanzo ‘realista’, ma la sostanza non cambia: i personaggi scelgono per davvero, le loro scelte cambiano se stessi e il mondo che li circonda. E quei “gesti morali” ci raggiungono con tanta più forza quanto più grande è l’eco che suscitano nel “mondo pensato dall’autore”, lo stagno appunto.

    Ergo: senza ‘stagno’ non si va da nessuna parte.

  18. Lara Manni Says:

    E se sei chiuso in una torre (o monolocale con angolo cottura) non scegli. Tanto meno se ti manca la consapevolezza di essere prigioniero.

  19. Giovanni Padrenostro Says:

    Interessante argomento.
    Concordo sulla definizione di Melmoth sulla morale narrativa.
    Di recente ho letto “35 miglia a Birmingham”, Urania, di James Brazil(certamente non paragonabile al capolavoro di McCarthy, ma comunque un ottimo romanzo) in cui è proprio il tema della “scelta” (immigrare o non immigrare)in un contesto apocalittico che è al centro della storia.
    Scelta imposta, consapevole, attiva, subita, rimandata.
    Personaggi che agiscono contro la propria immobilità e altri che la subiscono restando bloccati nel limbo dell’indecisione.
    Per certi versi mi ha ricordato la drammaticità che vivono le persone costrette a scegliere se lasciare il prorpio paese d’origine per motivi che vanno al di là del problema lavoro o restare e lottare.

  20. Lara Manni Says:

    Suggerimento di lettura accolto.

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