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Edward Cullen e il massacro di San Valentino

febbraio 13, 2009

C’era il sole.
Edward Cullen tirò un respiro di sollievo: gli ci erano voluti diversi mesi per ricomporre, brandello dopo brandello, quel che restava del suo (meraviglioso? perfetto? Decise, infine, per “marmoreo”: era il suo aggettivo preferito) corpo. I bastardi avevano fatto un lavoro di fino, pensò, ricordando la soddisfazione con cui Lestat, il Conte e Barlow avevano morso, strappato, sfilettato e trasformato in cubetti di sashimi il suo (splendido, magnifico…com’era? Ah, sì: marmoreo) corpo.
Ma era rinato, infine: grazie alla distrazione con cui un frammento dell’unghia del suo (sottile, affusolato, impeccabile) mignolo era stato dimenticato  al sole da Barlow.
Il sole.
Con un nuovo sospiro di soddisfazione, Edward lasciò che i raggi lo riscaldassero e trasformassero la sua pelle in una luminaria natalizia. Faceva sempre il suo porco effetto. E, grazie al cielo, era San Valentino. Il suo giorno.
Fischiettando, si avviò verso l’automobile, sfolgorando come un fischione di Capodanno. Avrebbe fatto tappa al McDonald più vicino, certo di incontrare là almeno un centinaio di minorenni che sarebbero andate in estasi al solo vederlo. Pregustava gli autografi, i cuoricini di cioccolata che gli avrebbero offerto, pur sapendo che non li avrebbe mangiati, gli sguardi languidi.
Questa è vita, pensò, aprendo la portiera del Suv a tre piani e accomodandosi sul sedile in vera pelle di puma.
Il tempo di avviare il motore, e un oggetto freddo e duro gli si posò sulla nuca.
“Statte calmo, guagliò”, disse una voce nasale alle sue spalle.
Edward deglutì. Un rapinatore, ecco. Uno di quei delinquenti che adesso girano per le città: lo aveva sempre detto, che doveva iscriversi alla Lega Nord, prima o poi.
Ma lui era un vampiro, giusto? Un po’ sui generis, ma sempre vampiro.
Sentì la familiare pressione dei canini che si allungavano (il sinistro doveva avere una piccola carie: doveva smetterla con quei lollypops alla fragola, dannazione).
E sentì anche un suono altrettanto  familiare. Quello di una risata.
“Guagliò, non pazziare. Io sono già morto. Guarda nello specchietto”.
Cullen sollevò lo sguardo: incontrando quello, apparentemente bonario, di un omino vestito da gangster.
“Non vestito da. Io sono un gangster. Sono Al Capone, guagliò: e esattamente ottant’anni fa mi sono tolto chillo sfizietto…conosci? Il massacro di San Valentino. Ah, bei tempi, quelli”
“Mi leggi nel pensiero?”, chiese Cullen a denti stretti.
“E cierto”, ridacchiò Al Capone, sbocconcellando la pizza con i friarielli che reggeva nella mano sinistra. “Noi zombie abbiamo un sacco di poteri che voi vampiri non immaginate nemmeno. Specie- aggiunse con orgoglio – noi zombie di ultima generazione. Non puzziamo, non siamo deficienti, non sbaviamo e ricordiamo tutto. Come me. ‘A mamma. ‘O Vesuvio. ‘A pummarola. ‘O sole”.
Al Capone trasse un profondo respiro e intonò a squarciagola: ‘O sooole mioooo, sta ‘nfronte a teeeee”.
“La pianti!”, gemette Cullen.
“E pecchè? Nun ti piace ‘a musica? Ah, già – riprese il gangster, sputacchiando friarielli sulla nuca di Edward – a te piacciono i cosi, i …Musi, Muse…come si chiamano. Me lo ha detto ‘o boss”.
“Boss?”
“E ccierto. Chillo che mi ha dato l’incarico di seguirti, caricare la pistola con pallottole d’argento con un pizzico di aglio, che funzionano pure su un nettamappine come te, e di portarti da lui prima che tu potessi combinare una pazziata a San Valentino”.
Le mani di Cullen si serrarono sul volante.
“Ma quale pazziata! San Valentino è il mio giorno! Lo sa che sono finito persino fra i regali di Facebook? Le ragazze, oggi, andranno al cinema con i loro ragazzi: ma penseranno a me”.
“Appunto, guagliò. ‘O boss ha ricevuto una milionata di mail da chilli poveri figli e siccome in fondo tiene cuore pure lui, ha deciso di intervenire. Siamo arrivati, va. Frena e conserva ‘o fiato”.
Dal garage blindato dove il Suv di Cullen si era fermato partiva un cunicolo. E come è ovvio il cunicolo era buio e affollato da annoiatissimi pipistrelli impegnati in una partita a rubamazzetto. E come è altrettanto ovvio, alla fine del tunnel c’era una stanza immersa nelle tenebre. E come è sempre più ovvio, il pallido Conte Dracula sedeva alla scrivania sfogliando un fotoromanzo tratto da Carmilla (e sospirava appena un poco, preda di dolci ricordi), mentre Barlow sonnecchiava nella sua cuccia, e Lestat de Lioncourt aggrottava le belle sopracciglia davanti a una scacchiera. Davanti a lui, un altro vampiro di uguale bellezza, infilato in un paio di pantaloni di pelle nera e con un’incongrua camicia dai polsini di pizzo, muoveva un alfiere.
“Scacco al re”.
“Sacrebleu, Jean Claude, di nuovo?”
Al Capone si schiarì la voce. “Signo’, aggio portato ‘o guaglione”.
Non accadde nulla. Dracula continuò a sospirare, Barlow uggiolò, rigirandosi nel sonno, Jean Claude e Lestat si confrontavano il pizzo dei polsini.
Cullen era sbiancato. Dopo dieci secondi di silenzio e indifferenza, si era anche seccato. Dopo trenta, alzò la voce.
“Se dovete farmi a pezzetti come l’altra volta, almeno spicciatevi e facciamola finita. Tanto lo so che lo fate per invidia e per gelosia: perchè i libri che parlano di me sono in testa alle classifiche e i vostri non se li fila più nessuno. E nessuna fangirl si sognerebbe di regalare VOI per San Valentino a nessuno”.
Dracula annusò distrattamente una rosa rossa, Jean-Claude rassicurava al cellulare una certa Anita sul fatto che, no, non l’aveva affatto tradita, Lestat batteva il tempo di Like a Rolling Stone sul tavolino, Barlow emise un peto leggero, nel sonno.
“Guagliò, sembra che qui non ti si fili nessuno. Eppure avevano tanta fretta”.
“Non noi – precisò Lestat – non riconosciamo quella feccia come appartenente alla nostra razza. Quindi, stavolta,  non ci sporcheremo le mani con lui. Sarà il boss a decidere la sua sorte”. Poi ricominciò a canticchiare. Ramones, stavolta.
“Non sei tu il boss”, esalò Cullen?
“No, cherie. Il boss arriverà esattamente fra…vediamo…tre, due, un secondo”.
La finestra polverosa della stanza si infranse.
Barlow fu il primo a scattare in piedi, muovendo, festoso, la coda. Il Conte alzò il viso, sorridendo. Jean Claude e Lestat si inchinarono graziosamente.
Una bambina vestita da contadinella, le guance rosee e i corti capelli neri scarmigliati, fissava Cullen con sguardo di fuoco.
“Ma tu sei…sei…”, balbettò il vampiro.
“Heidi, è esatto. E fatti dire che sono assolutamente esasperata. Qualcuno ha una sigaretta?”
Jean Claude aprì il portasigarette d’argento, mentre il Conte avvicinava il suo miglior candelabro per accendere.
Heidi aspirò una boccata nervosa, passeggiando su e giù sul tappeto.
“Eppure ti avevamo avvertito, Cullen. Non si mischiano i generi: IO sono la capostipite delle storie mielose, e faccio il mio sporco lavoro con onore e professionalità. Loro sono la parte buia, e si comportano secondo le regole. TU continui a fare casino. Dunque, è il momento di dire basta”.
“Ma. Un momento. Posso spiegare”, tentò Cullen.
“Oh, abbiamo parlato anche troppo”, rispose la bambina, sedendosi sulla scrivania di Dracula e lanciando a Barlow una pallina. “E stavolta non lascerò che questi gentiluomini perdano un solo istante del loro prezioso tempo”.
“Troppo giusto”, annuì Jean Claude.
Un battito di mani, e dalla finestra entrò uno sciame di api.
“Tutto tuo, Maia”, disse Heidi rivolgendosi a quella che sembrava il capo.
Pochi secondi, e il corpo di Cullen nereggiava di insetti.
“Non dovremo pulire noi, vero, ma chere?” sorrise Lestat.
“Non ce ne sarà bisogno”, disse Heidi grattando la pancia di Barlow.
Al Capone porse un portacenere alla bambina, ossequioso. Per coprire il ronzio, pensò, ci voleva una canzone. E quella canzone era perfetta per la situazione. Un nuovo respiro profondo, e le note di ‘O sole mio echeggiarono nella stanza, rotolarono nel tunnel e raggiunsero la superficie.
Era un buon modo di celebrare l’anniversario, pensò il gangster. Davvero.

Ps. Mancavano da un po’ le storielle, giusto? E San Valentino era un’occasione da non perdere. Specie se lo detestate quanto lo detesto io.