Stride la vampa (racconto-premio)

Stride la vampa

di Lara Manni

Questo racconto è stato commissionato da Valentina Graziani e per lei è stato scritto fra il 26 e il 28 febbraio 2012.

“Ti dicevo. Quando l’ho visto per la prima volta con la divisa del coro, i pantaloncini blu al ginocchio, e la camicia bianca. Stirata e inamidata, si capisce. Una volta le camicie si inamidavano. Il collo, i polsini. Si tamponavano con l’appretto, lo sapevi? No, non puoi saperlo. Non ti ci vedo a stirare una camicia. E poi l’amido non si usa più. Peccato. A me piaceva. Compravo l’amido di riso, quando era bambino. Gli lavavo il sedere, le ascelle, il collo. E anche quando è cresciuto, gli lasciavo le bustine vicino alla doccia, perché ha sempre avuto la pelle inamidata. Oddio. Inamidata. Delicata, volevo dire. E’ che mi confondo. Sono vecchia e mi confondo. Tu non hai idea di quello che significa. Non è solo una questione di ossa. Mi fanno male, le ossa, certo. Come a tutti i vecchi. La gamba destra soprattutto. Brucia, dal ginocchio all’inguine, come se avessi un filo incandescente dentro la carne, e il filo la consuma, ogni minuto, non smette mai,  e ogni tanto manda una fiammata più alta. Piano e forte, forte e piano. Come la musica, proprio adesso. La senti anche tu, anche se sei giovane e non capisci.

Sinistra splende – sui volti orribili-
La tetra fiamma – che s’alza al ciel!

Non ti piace Verdi, lo so. Invece a me le musiche che ascolti tu non dispiacciono, vedi la differenza? Io sono curiosa, tu sbuffi. Alejandro, per esempio, mi piace proprio. Don’t call my name Don’t call my name. Ale-ale-jandro.  Ti dicevo”.
A quel punto, Viola si ferma, con la mano a mezz’aria e la carta che le trema fra le dita. Un quattro di denari, questo pomeriggio:  quattro soli ghignanti a pochi centimetri dalla faccia di Maria. Ci siamo, pensa Maria mentre si alza, fa scorrere l’acqua dal rubinetto, riempie un bicchiere, lo accosta alle labbra di Viola, la costringe a bere. La carta scivola dalla mano, cade sul tavolo, i quattro soli guardano e ridono. Una risata da assassini, pensa ancora Maria. E subito dopo pensa che ha la testa piena di stronzate e che non ce la fa più, non arriverà alla fine di marzo, altro che tre mesi, il pomeriggio dalle quattro alle otto, quattrocento euro al mese, in nero, il tempo che arrivi la primavera, che la badante di Viola torni dalla Romania. Un lavoro come un altro.
Spegne il lettore cd.
Viola ha abbassato le palpebre, la testa ciondola sul petto. Si addormenta sempre dopo che si è infilata nei buchi. Maria li chiama così: immagina la mente di Viola  come una persona che ha bevuto troppo e cammina di sbieco, scivola sul ghiaccio, inciampa e finisce nel buco. Succede sempre più spesso, e quando la vecchia esce dal buco non ricorda di esserci caduta e riprende a raccontare dallo stesso punto in cui si era fermata. Dicono che sia Alzheimer precoce. Maria pensa che il cervello di Viola non ce la faccia più a ricordare sempre la stessa cosa. Stefano che era il  figlio migliore del mondo e che è morto. Facile da dire, no? Difficile da sopportare, immagina. Per quel che gliene importa.
Va alla finestra, la spalanca. L’aria è fredda. Il cielo è coperto. Se non ci fossero le nuvole, fra poco dovrebbe apparire una falce di luna rovesciata, proprio come un sorriso. Luna a barchetta, la chiamano: succede raramente e quando succede è un brutto presagio, Maria lo ha letto stamattina su Facebook. Alza la mano, la passa fra i capelli.
Brutto, va bene. Almeno succedesse qualcosa. Non succede mai niente. Non a me, comunque.

Maria ha venticinque anni, non si è ancora laureata. A dirla tutta, ha dato solo cinque esami. E’ per questo che è qui. A fare la balia a una vecchia demente, ad ascoltare le sue insopportabili opere liriche e i suoi monologhi su Stefano. Stefano bambino, Stefano adolescente, Stefano ragazzo. Il più bello, il più intelligente e, oddio, perché non è morta anche lei? “Sarebbe bastato dire: vengo con te, mi dai un passaggio e mi lasci da Romoli, mangio un maritozzo con la panna, fanno i maritozzi più buoni della città, da Romoli, poi torno con l’autobus”. Invece – Maria lo sa, ha imparato a memoria quella parte – Stefano è uscito mentre la madre faceva il solitario, come tutti i pomeriggi, ascoltando Verdi, come tutti i pomeriggi. Era distratta, però. Viola lo ripete sempre: “quel giorno avevo la testa da un’altra parte, proprio mentre dovevo stare attenta. Succede sempre così, ti distrai e il destino ti colpisce alle spalle”. Perché Stefano era giovane e libero e solo, e non si è accorto che stava correndo troppo, e  non c’era nessuno seduto al posto del passeggero a dirgli “ehi, non ti sembra di esagerare?”. Non c’era lei, Viola. Che calava un quattro di denari mentre la Renault di Stefano sbandava a sinistra e poi a destra e infine si accartocciava contro il muro sbriciolandosi come una foglia secca e sbriciolando anche Stefano, e con lui la vita di Viola.
Maria alza il viso, ora cade una pioggerella gelida. Si sporge, si bagna le guance. E’ comunque qualcosa di diverso, meglio infilare la testa sotto la pioggia che guardare Gordon Ramsey mentre impreca contro un cameriere o cambiare il colore dello smalto (blu, magari: più tardi proverà a vedere come le sta). Non vuole essere qui. Sono solo quindici giorni che “tiene compagnia a Viola”, come le ha chiesto sua madre (come le ha ordinato sua madre: se non studi, niente soldi, torni a casa e lavori. E se non vuoi tornare, cominci a lavorare a Roma, il pomeriggio, e la mattina metti il tuo bel nasino sui libri. C’è una signora che ha bisogno, per esempio”. La signora bisognosa era Viola. La mattina veniva un’altra badante, in attesa che tornasse quella che la accudiva da cinque anni. Puliva, rifaceva il letto, cucinava. Maria doveva solo entrare in casa e restarci. Aprire ogni tanto le finestre per mandare via la puzza di sudore e di vestiti vecchi. Friggere una fettina di carne quando a Viola veniva voglia di fare merenda, e voleva farla con la fettina e un panino all’olio, “mai dato retta ai medici e non comincerò adesso”. Ascoltarla mentre raccontava, guardare con lei gli album di fotografie con Stefano sul passeggino-Stefano vestito da moschettiere-Stefano il primo giorno di scuola, farsi venire il mal di testa con Verdi,  sempre la stessa aria e sempre la stessa voce di donna.

Stride la vampa! – la folla indomita
Corre a quel fuoco – lieta in sembianza

Maria sbuffa. Si riempie la faccia di pioggia, spera che lavi via la noia, la stanchezza, il disgusto che le torce lo stomaco ogni volta che si chiude in quella casa piccola e piena di fotografie e di statuine. Gatti. Solo statuine di gatti. Gatti d’argento, gatti egiziani a forma di mummia, gatti di plastica, di vetro, di terracotta. Gatti. Siamesi, persiani, tigrati, rossi, neri, grigi. Da ogni scaffale, su ogni tavolino, sopra il mobile dei dischi. In cucina, persino. “Stefano faceva collezione di gatti”, le aveva detto Viola, mentre calava le carte in un solitario che occupava tutto il tavolo, e non riusciva mai a risolvere. Napoleone, si chiama il solitario. Maria conosce solo i solitari del computer, a volte ci si chiude quando la noia raggiunge il culmine. Era stato Stefano a insegnare Napoleone  alla madre. La casa era raggelata nel ricordo di Stefano, e Maria era prigioniera della casa.
Quattrocento euro, in nero, tutti i pomeriggi dalle quattro alle otto.
Dalle quattro alle otto. Salire due piani di scale, inciampare nella bicicletta con le rotelline davanti alla porta del terzo piano, spiegare alla coppia di arabi che l’ufficio del commercialista è all’ottavo e, no, mi dispiace, l’ascensore è quasi sempre rotto. La porta di Viola, con la pianta di plastica verde dentro un cestello di peltro con le maniglie. Viola in poltrona, davanti alla finestra, la musica che urla che la vampa stride e che qualcuno ci brucerà dentro. Le fotografie di Stefano col grembiulino azzurro dell’asilo, sul cavallo delle giostre, con il primo giubbotto di pelle. Non era male, poi, Stefano. Occhi grigi, freddi ma belli. Un sorriso sghembo da bandito. Capelli neri, lunghi, raccolti in una coda. Il giubbotto. “Le ragazze gli cadevano ai piedi”, sorrideva Viola, cullando la fotografia con lo sguardo. “Somigliava a suo padre”.
Già, il padre. Non c’era traccia di un marito, in quella casa. Maria aveva guardato nei cassetti, quando Viola cadeva nel suo buco e si addormentava. Non una fotografia, una lettera, una maglia vecchia. Un cognome. Niente. Non che la cosa avesse importanza. Non doveva prendersi a cuore la vita di Viola: doveva stare con lei (dalle quattro alle otto, dal lunedì al venerdì, quattrocento euro, in nero). Per poter rimanere a Roma invece di tornare al cazzo di paesello. Per poter dormire fino alle due, trascinarsi fino alla macchinetta del caffè con la sigaretta già fra i denti, accendere il telefonino, intanto, e cominciare a pensare alla serata, quella che sarebbe cominciata dopo le otto,  una volta uscita da quella stanza, libera dal tanfo di minestrina e di capelli di vecchia. Tutto qui.
Dovrebbe esserci altro? E cosa?

Maria ha solo venticinque anni. Non vuole sapere nulla di amori, dolori, figli, lavoro, fitte alle gambe. La vita è qualcosa che sorseggia giorno dopo giorno. Il suo corpo è forte e la sua mente è dolcemente torpida. Le basta aprire gli occhi la mattina, restare sotto le coperte finché ne ha voglia, mangiare biscotti al cioccolato o  risotto in bustine quando le va, e la sera girare per la città, infilare i tacchi nei sampietrini, ascoltare i progetti degli amici (andare all’estero, un master, un matrimonio, un romanzo ) con una birra gelata nella mano. Guardare la luna. La musica. La vita è questa, finché potrà.
A lungo
, pensa, richiudendo la finestra con un brivido. Ha smesso di piovere. Le nuvole scoprono le prime stelle. Fra poco si vedrà la falce di luna, luna a barchetta. E’ già notte. Sono le sei. Ancora due ore e sarà fuori. Appuntamento a Campo de’ Fiori, sotto la statua di Giordano Bruno, come ogni sera.
“Ti dicevo”.
Maria sobbalza. Si è  svegliata? In genere, quando cade nel buco, Viola dorme fino alle sette e mezzo. Il tempo di riscaldare la minestrina, di farci squagliare dentro un formaggino, e poi stare attenta che non se la sbavi addosso. Invece è sveglia. Sveglissima. Le punta addosso due occhi verdi che per la prima volta non sono acquosi, non lacrimano, non guardano cose che Maria non può vedere. Scintillano, invece. Di qualcosa che sembra felicità.
“Ti ho messo paura? Scusami. Stavi guardando il cielo? Piove? No, lo vedo anche da qui. Ha smesso. Stasera c’è la luna che ride. Sapevi che capita una volta ogni quarant’anni? No? Avevo vent’anni quando l’ho vista per la prima volta. Era questo che ti stavo raccontando, è vero?”.
Dunque,
pensa Maria, ha sessant’anni. Pensavo fossero molti di più. Invece adesso, ma guarda, sembrano molti di meno. Questa donna. Questa donna dev’essere stata molto bella. Lo è ancora. Adesso.
Viola allontana la sedia dal tavolo. Guarda la carta, il quattro di denari. Sorride. La spazza via dal tavolo. “Basta solitari. Mi aiuti a fare una doccia? Oh, non guardarmi così. Non devi farmela tu. Basta che mi accompagni e resti fuori dalla porta. Solo se dovessi cadere, entri e mi tiri su. Ma non cadrò, vedrai. Voglio lavarmi. Guarda. Ho i capelli sporchi. Puzzano”.
Sai che novità, pensa Maria. Sono sempre stati sporchi da quando ha messo piede in quella casa. Però, per la prima volta, li guarda senza distogliere gli occhi per lo schifo. Sono rossi. Annodati sulla nuca e aderenti al cranio come se fossero bagnati nell’olio. Rossi, e non sembrano tinti.
Ma guarda. Capelli rossi e occhi verdi. Cos’altro scoprirò sulla vecchia?

Che la gamba non deve farle molto male, per esempio, visto che cammina spedita verso il bagno.
Maria la segue nel corridoio. Libri. Libri e gatti, gatti, gatti. Pazienza. Solo due ore. Ma il tempo deve scorrere in modo strano, e comunque diverso per lei e per la vecchia, perché mentre si è voltata a guardare i gatti Viola ha già chiuso la porta del bagno, lasciando fuori i vestiti ammonticchiati. La vestaglia rosa, macchiata di dentifricio sul davanti. La camicia da notte verde acqua con i polsini strappati. “Bruciali”, la  sente ridere mentre l’acqua inizia a scrosciare.
Bruciarli? Ma che sta dicendo?

Forse stavolta Viola è caduta in un buco troppo profondo e ci è rimasta impigliata. Forse le verrà un ictus sotto la doccia, e bisognerà raccoglierla, chiamare l’ambulanza, avvertire…chi? Viola non ha parenti.
Invece l’acqua scorre e Maria non sa cosa fare. Ecco, questo è un imprevisto, uno di quelli che scuotono la monotonia delle giornate. Lo desiderava e scopre che le dispiace. Pensa che in fondo è stata proprio la monotonia a permetterle di sopportare le settimane passate con la vecchia. Pensa che, non sa perché, ma ha paura di questa Viola nuova che non fa il solitario e non guarda le foto del figlio e canta sotto la doccia.

Nun me lo di’
stanotte, a chi hai stregato er core,
la verità fa male,
lasciame ‘sta visione
pe’ sperà a a a a

Maria conosce la canzone. E’ la sigla di uno sceneggiato, Il comando, o una cosa del genere. Sua madre ha il Dvd, dice che le ricorda quando era ragazza. Che palle. Cosa ricorderà lei, Maria, di questi anni da ragazza? La birra a Campo de’ Fiori sotto la statua di Giordano Bruno. La musica a palla dalle automobili. Le luci.
Luci.
Batte le palpebre.
Cos’è?

Nella penombra del corridoio (le lampade sono spente, c’è solo la striscia chiara che filtra dalla porta del bagno) sembrano accendersi piccoli fuochi. Sembrano scintille di un incendio. Una vampa. Un rogo.
“I roghi non illuminano le tenebre”, rotola da un angolo della mente di Maria. Non sa dove abbia letto la frase. Non sa cosa stia accadendo. Sa solo che le mani salgono fino alle tempie, e stringono le ciocche di capelli, e poi Maria grida.
La porta si spalanca. Viola è infilata in un accappatoio bianco che sembra nuovo, o comunque non ha l’aspetto spiegazzato di tutti i suoi vestiti, i capelli sono avvolti in un asciugamano pulito. Sembra più viva e giovane di quanto lo sia mai stata.
“Che succede? Perché urli?”.
Maria balbetta che aveva visto… non sa neanche lei cosa aveva visto, e si sente ridicola, e per la prima volta infinitamente giovane e stupida davanti a questa donna che le si è trasformata in pochi minuti sotto gli occhi. Ma Viola non la ascolta, si è infilata in camera da letto, la sente aprire sportelli e cassetti. Le luci sono scomparse. Ci sono solo i gatti. Le statuine dei gatti, in fila sul bordo della libreria, e i loro occhi sono ciechi, come è normale che sia. Lo stress? Una canna di troppo, ieri sera? Una birra? La noia?
“Ti dicevo”, fa Viola, uscendo dalla camera da letto con un vestito di garza bianco e lungo fino ai piedi. Un vestito da ragazza. Un vestito che una ragazza indosserebbe in estate per uscire con gli amici, inadatto per una sera di gennaio che è diventata serena, con le stelle e la falce di luna che si intravedono dalla finestra della camera da letto. Una falce come un sorriso. Una falce come un ghigno.
Viola le mette una mano sulla spalla, la guida verso il salotto, continuando a sorridere e a parlare. “Ti dicevo. Sai quando ho messo per la prima volta questo vestito? Quarant’anni fa, la notte della luna a barchetta. Avevo vent’anni ed ero più giovane di te, ed era giugno, e l’aria profumava di rose. Era una notte bellissima, così bella che non riuscivo a tornare a casa. Avevo fatto tardi con gli amici, proprio come fai tu. Il gelato a piazza Navona, la passeggiata lungo il Tevere, una sigaretta seduti sul parapetto, con le gambe penzoloni. Le fai anche tu, queste cose, vero? Insomma, era tardi, e c’era questa luna che sembrava un sorriso, e i miei amici erano andati a casa. E io mi sono trovata da sola, a Campo de’ Fiori. Avevo bevuto una birra di troppo, e mi girava la testa, e avevo voglia di ridere e di fare follie. Così, mi sono seduta sotto la statua e mi sono messa a cantare.

ma tu, ma tu amore mio
se m’hai lasciato ancora nun lo di’.
no, non lo di’
nun parlà
sei una donna
o una strega
chissà?

Mi piaceva quella canzone. L’anno prima non avevo perso una puntata dello sceneggiato. Il segno del comando, tu non puoi conoscerlo, o forse sì. Adesso ritirano fuori quasi tutto, di quegli anni. Naturalmente ero un po’ innamorata di Edward Forster, il protagonista. Naturalmente volevo essere Lucia, il fantasma con il candelabro in mano. Per questo avevo comprato il vestito di garza con le maniche ampie e il collo ricamato, uguale al suo. E quella notte mi sentivo magica, con una luna così. E libera. Non avevo un ragazzo, non fisso, almeno. Avevo solo una montagna di sogni. Cosa sarei stata? Cosa sarei diventata? Una cantante? Una giramondo? Una strega?”
Viola si è seduta in poltrona. Prima, l’ha girata verso la finestra del salone. E’ ancora spalancata, entra l’aria gelata della notte. Maria rabbrividisce, in piedi davanti a quella donna col viso raggiante, i capelli rossi bagnati che le ricadono sulle spalle. Sembra una santa. Sembra una strega. Davvero.
“E poi?”, riesce a mormorare. “E’ successo qualcosa, quella notte?”
“Tesoro. E’ successo tutto. Prima pensavo che fosse un sogno, che mi fossi addormentata con la testa sui gradini della statua e che qualcuno mi stesse scuotendo per svegliarmi. Magari era già l’alba e cominciavano a montare le bancarelle del mercato. Credevo che quello che mi poggiava la mano sulla spalla fosse un verduraio incazzato. Invece no. Perché quando ho aperto gli occhi era ancora buio, e davanti a me c’era lui”.
“Lui?”
Gli occhi di Viola fissano il vuoto. Maria pensa che potrebbe passarle la mano davanti e non la vedrebbe. Ma non è caduta nel buco, non trema, non è sparita. E’ qui, ed è a Campo de’ Fiori. La stanza è buia. Perché è così buia? E perché Maria dovrebbe andarsene, perché sente che dovrebbe farlo, perché trema  dalla punta dei piedi fino alla radice dei capelli?
I piedi. Deve averli gonfi. Le scarpe le fanno male. Che strano.
“Ti dicevo. Lui. Era vestito proprio come la statua. Aveva il mantello e il cappuccio. Però. Sotto il cappuccio aveva quegli occhi che bruciavano. Occhi grigi. Gli occhi più belli e terribili che avessi mai visto, Maria. E sorrideva. Anche il sorriso era terribile, me ne rendevo conto. Capivo che avrei dovuto avere paura ma non riuscivo. Era così bello. Bello come una fiamma, nero contro il nero del cielo. Splendeva”.
Maria si lascia cadere sulla sedia. Deve togliersi le scarpe. Come mai i piedi? Sono proprio gonfi. Forse ha preso freddo. Sta covando l’influenza. Una canna di troppo. Deve smettere. Proprio.
“Non faceva nulla, solo tenermi la mano sulla spalla, e la mano era pesante e calda. E sorrideva, come incuriosito. Come se volesse capire chi ero. Poi, dopo un po’, mentre io continuavo a fissarlo e a chiedermi chi fosse quell’uomo e cosa volesse da me e da dove fosse sbucata fuori una creatura così, mi ha detto: Finalmente”.
“Finalmente? Solo questo?”.
Via. Le scarpe. Meglio. Non vuole guardarsi i piedi, non vuole vederli gonfi come salsicce. Non sarà allergica? Non è che le si gonfia la gola e muore così, davanti a questa donna pazza che le racconta di aver parlato con la statua di Giordano Bruno? Le fanno male le spalle, adesso.
“No, non solo questo. Prima, però, mi ha preso il mento con  due dita  Per guardarmi meglio. Anche le dita erano calde, più calde di quanto avessi mai immaginato. Eppure, mi sono venuti i brividi, sai? E intanto lui parlava. Diceva che era tanto tempo che aspettava, e che il tempo non passava mai, per quanto fosse abituato agli eoni che sfilavano lenti sotto i suoi occhi. Ma stavolta il tempo era quasi fermo, da quando il monaco aveva usato la magia e lo aveva ingannato, mentre le fiamme del rogo erano altissime su di lui e il fumo gli aveva già corroso la gola e insomma era il tempo di morire e di chiedere perdono e sperare nella grazia dell’Altissimo. Invece no. Invece il monaco lo aveva chiamato, e con parole così imperiose e potenti che persino lui, lui che aveva ancora nel volto lo splendore di Dio anche nei luoghi oscuri che ora dominava, non aveva potuto fare a meno di obbedire, e dalle sue stanze di lava e ghiaccio aveva volato, in un turbine di stupore, fino al rogo dove il monaco stava per essere consumato. E aveva preso il suo posto”.
La testa di Maria pulsa. Si stanno gonfiando anche le spalle. O è febbre, o è allergia. Dovrebbe reagire e alzarsi e correre al pronto soccorso. Invece non riesce a muoversi, inchiodata alla sedia, mentre il corpo si dota di vita propria, e si muove e si torce come se non fosse suo. Le spalle. Sente il criac del maglione che si strappa sui bicipiti. Le testa pulsa al ritmo delle luci. Sono tornate. Non sono luci. Sono occhi.
“Il suo posto nelle fiamme, ti dicevo. Lui me lo ha raccontato. Mi disse che le fiamme non lo avevano ucciso. Che non poteva essere ucciso. Lui era stato creato per durare, da quand’era la stella del mattino e l’helel. Ma poteva essere imprigionato, se si conoscevano le parole, e il monaco le conosceva, e le aveva usate, e poco importa che ora l’anima di quel traditore bruciasse come una torcia dopo che aveva concluso i suoi giorni, vecchissimo, nella più remota delle isole greche. Lui era rimasto, era dovuto rimanere. Prigioniero dei sassi anneriti dal rogo, prima. E dopo che i secoli erano sfilati in avanti, lunghi e tormentosi, prigioniero sotto la statua che su quei sassi era stata eretta. Per quanto grande fosse il suo potere,  per quanto splendida la sua perfezione, non poteva liberarsi. Non finché il cielo avesse mostrato il suo sorriso a un canto di donna. Questo diceva la magia del monaco. I roghi non illuminano le tenebre. Solo quando sarà il cielo a illuminarsi, sarai libero, questo diceva”.
Le luci. Sono occhi. Occhi di gatto. I gatti sono vivi. Si affacciano da ogni scaffale, code, denti, pelo, un muro compatto che soffia attorno a Maria. Maria sta lottando contro la sua stessa carne, che si muove come se code, denti, pelo fossero sotto la pelle. Le gambe. Le gambe sembrano più lunghe, i jeans si lacerano all’altezza delle cosce. Criaaaaac. E i suoi seni. Oddio. I suoi seni.
“Così era durata a lungo, e il cielo aveva sorriso molte volte, questo mi diceva, ma nessuna donna aveva cantato nel luogo dove il Re dei raccolti si gonfiava di ira impotente. Poi sei arrivata tu, aveva concluso, sollevando le dita ad accarezzarmi la guancia, e poi le tempie. E io volevo che quella carezza continuasse, capisci? Io volevo. Per la prima volta sapevo cosa sarei stata, capivo cosa desiderassi davvero. Così, quando mi chiese come poteva ringraziarmi, seppi cosa rispondere, Maria. Era la cosa più bella che potessi sognare. Quella chiesi. Quella ottenni”.
Le labbra. Riesce a muoverle a malapena. E la cosa peggiore non è neanche più quel suo corpo tormentato. E’ la sua mente. Pulsa come gli occhi dei gatti. E a ogni pulsazione si ritrae un po’, come se qualcosa cercasse di farsi largo nel suo cervello, qualcosa di prepotente, di forte, che a ogni spinta divora qualcosa di lei. Qualcosa.
Maria. Mi chiamo Maria. Ho 25 anni. Mi piace la vodka. Mi piace la pasta con le vongole. Guardo Real Tv. Mi piace dormire. Dormire, sì. Cosa sta dicendo questa donna? Chi è questa donna?

“Mi ha dato un figlio. Me l’ha dato quella notte stessa, in quella piazza, sotto la luna che rideva. Non è passato nessuno. Il tempo era fermo. Il mondo stesso era fermo. Vuoi che te lo racconti, Maria? Vuoi che ti dica com’è stato, stupida ragazza? Stupida, presuntuosa ragazza. Pensi che non li abbia visti, i tuoi sguardi? La vecchia. Questa vecchia schifosa e le sue minestrine e i suoi solitari e la sua lirica. Quella notte è stata una vampa senza fine. Bruciava come le fiamme. Strideva e consumava. Non la dimenticherò mai, mai finché avrò vita”.
Tutta questa luce. Gli occhi di Viola. Splendono. Viola splende. I gatti. La luna.
Chi sono? Mi chiamo Maria. Ho 25 anni. Mi piace. Cosa mi piace? Ho paura. Gli occhi. Mi bruciano gli occhi. Brucia. Vampa.
“Mio figlio era bellissimo. Somigliava a lui. Gli stessi occhi. Lo stesso sorriso. Ed era mio. Ma per quanto? Da quando è nato, ho avuto paura di perderlo. Non ci sarebbe potuto essere nessuno come lui, questo lo capisci. Sono stata attenta. Tutte le volte. Lo accompagnavo io a scuola, finché non ha avuto tredici anni. Passavamo a Campo de’ Fiori, sotto la statua, e ogni volta pensavo: vedi? Vedi come lo sto crescendo bene? Vedi come è grande, forte, bello, come sarà degno di te, quando sarà un uomo? Lui saprà come renderti gloria. Ma tu fai che non gli succeda mai niente. E non successe, per un po’. Sono stata attenta. Lo seguivo alle gite scolastiche. E poi, quando è cresciuto. Controllavo gli amici. Lo spiavo mentre andava ai cortei. La Pantera, quelle cose che gli piacevano tanto. Io c’ero. E quando non ero al suo fianco lo accompagnavo con la mente.  Il mio pensiero non lo ha mai abbandonato. Solo quella volta. Quella volta che sarei dovuta andare con lui. Invece. Ero stanca. Lui aveva vent’anni, io quaranta. Faceva caldo. Sono rimasta qui. E lui. Sai com’è andata, vero Maria? Te l’ho raccontato tante volte. Stai calma. Non provare ad alzarti. Non manca molto”.
Maria non potrebbe alzarsi neanche se volesse. E’ a gambe larghe, la schiena inarcata contro la sedia. Una schiena che non è più la sua. Inala aria a sorsate. Solo la mente resiste, si dibatte, cerca appigli per non morire.
Mi chiamo Maria. Mi chiamo Maria. Mi chiamo Maria.

“Quando Stefano è morto, volevo morire anche io. Lo so, dicono tutte così, le madri. Ma nel mio caso era vero. Sono rimasta accanto alla sua tomba, seduta in terra, per giorni e notti. Mi portavano via e io tornavo. Scavalcavo il cancello, e tornavo. Finché una mattina mi sono svegliata, perché dovevo infine essermi addormentata, con la fronte contro il marmo del loculo, e in cielo c’era la prima stella. Stella del mattino, ho pensato. E ho pensato che ero ancora in credito. Che la libertà che gli avevo restituito valeva ancora qualcosa in più di quel che avevo avuto in cambio. Così sono andata a Campo de’ Fiori. Mi sono seduta ai piedi della statua. Mi prendevano in giro, all’inizio. Ero sporca. Puzzavo. Avevo gli occhi iniettati di sangue. Una vecchia pazza accovacciata sui gradini, in mezzo ai motorini, fra le bottiglie di birra vuote. Qualcuno aveva pietà. Mi lasciava qualche soldo, un po’ d’acqua, un cartoccio di pizza calda presa al forno. Io non mangiavo, non bevevo. Parlavo con lui. Gli dicevo: so che non sei più qui, ma so che se rimango in questo posto puoi sentirmi. Questo è il passaggio. Questo è il luogo dove sei stato prigioniero. Allora, se mi senti, ridammelo. Rimandalo da me. Per un po’ di tempo. Tu hai l’eternità. Io ho solo la mia vita, solo una. Rimandamelo. Per favore. Ricorda che io ho cantato. Ricorda la mia pelle. Il mio ventre. Hai detto che era caldo. Hai detto che era tanto che non ti univi a una donna. Per favore. Rimandamelo”.
I gatti si sono stretti attorno a Maria. Da qualche parte, la musica è ricominciata.

Stride la vampa! – la folla indomita
Corre a quel fuoco – lieta in sembianza;

Il corpo di Maria è percorso dal fuoco. Brucia. Brucia e nelle fiamme si rafforza. Maria è forte. Maria respira a fondo. Dio, come sta bene. Se solo. Se solo sapesse chi è.
Mi chiamo. Mi chiamo.

“E alla fine ha ceduto. Non chiedermi come lo so. So solo che una notte ho capito che potevo alzarmi e tornare a casa. Lavarmi. Bere. Mangiare. E aspettare, solo questo. Aspettare la notte in cui il cielo avrebbe sorriso di nuovo. Non sapevo come avrebbe fatto a restituirmelo, ma da quando sei entrata qui, tu, con quella tua faccia annoiata, con quella vita inutile che stavi sprecando fra le dita, ho capito che eri importante. Lo sei stata. E per questo ti rendo grazie, Maria. Grazie. Grazie per avermelo riportato”.
Viola si è alzata, si china sulla figura rovesciata all’indietro, le prende il volto fra le mani, le sfiora la fronte con le labbra. I gatti si strusciano contro la sedia, contro le gambe della figura. Gambe forti, che hanno strappato i jeans. Gambe muscolose. Gambe di maschio. Viola aspetta. Guarda le palpebre chiuse, le vede tremare, aprirsi su due occhi grigi e freddi. Poi, finalmente, sente la parola che aspettava da vent’anni.
“Mamma”.
Il cielo ride.

N.B. Questi erano gli ingredienti di Valentina. Spero di averli rispettati tutti:

“Ti darò cinque elementi, servendoti dei quali dovrai costruire un racconto. Il genere lo decidi tu. I protagonisti, anche.

1 – “I roghi non illuminano le tenebre”. Questa è una citazione di Stanislaw Lec. Che tu la usi come epigrafe, o citandola, o anche solo prendendone ispirazione, lo deciderai tu.

2 – Tempo: Notte.

3 – Luogo: Campo de’ Fiori. La statua di Giordano Bruno. Ho un debole per lui, lo sai.

4 – Gatti. Può essere un micio solo, possono essere una colonia, l’unica indicazione: non uccidermeli.

5 – Cento campane (canzone che costituiva la sigla finale de Il segno del comando, nda)

17 Risposte to “Stride la vampa (racconto-premio)”

  1. stefania Says:

    no words. wow.

  2. Lara Manni Says:

    Davvero?

  3. Giobix Says:

    Stupendo O_O
    Grazie a te che l’hai scritto e a Valentina che l’ha commissionato con questi elementi. Le immagini sono evocative e belle forti.

  4. Vania Says:

    Complimenti Lara, racconto bellissimo, l’ho letto tutto d’un fiato! Aspetto con ansia il secondo 🙂

  5. Lara Manni Says:

    Grazie! Tengo parecchio a questo racconto, lo confesso. Quanto al secondo, mi metterà alla prova duramente. Ma il bello è questo, no? 🙂

  6. Alessandro Says:

    Oggi lo rileggo con più calma, ché ieri ho fatto una corsa prima di uscire dall’office. Il finale mi inaspettò…

  7. Lara Manni Says:

    Molto bene. Era stato pensato per questo 🙂

  8. Gatti, roghi e Giordano « V(ale)ntinamente Says:

    […] Qui potete leggere il racconto che Lara Manni ha scritto sulle indicazioni che Ale e io le abbiamo fornito. Inutile dire che mi è piaciuto molto, Lara ha interpretato le richieste ben oltre la mia immaginazione. Una delle protagoniste del racconto, Viola, è una vecchia, e io ultimamente ho un debole per determinate vecchie persone. […]

  9. isabellamoroni Says:

    che brividi, Lara!!!!

  10. Lara Manni Says:

    Ne sono felice, Isabella. Era quello che volevo!

  11. Laura atena Says:

    Brava Lara!! Davvero bello! L’ho letto tutto d’un fiato, ora sono curiosa di leggere il secondo, sono certa che non mi deluderai!!!

  12. Lara Manni Says:

    Grazie! Il secondo è profondamente diverso. Ha un’altra voce, diciamo così.

  13. Vincent Mancuso Says:

    Aspetto il seguito! Inquietante cioè magnifico come sempre 😀

  14. Lara Manni Says:

    Grazie!!!! Il secondo racconto dovrebbe, spero piacerti 🙂

  15. Paolo E Says:

    Davvero molto bello.

  16. Valberici Says:

    Bello, interessante il ritmo della scrittura, sovente i periodi corti e veloci accelerano la lettura e creano una sensazione quasi di “caduta”, l’inevitabile precipitare verso la spaventosa conclusione di un incubo. Ora attendo il secondo. 🙂

  17. Lara Manni Says:

    Grazie a tutti e due. Secondo postato 🙂

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