Era nei commenti, ma mi permetto di farne un post. Soprattutto perchè quanto scrive Wu Ming 4 non riguarda solo Esbat ma apre il discorso a una miriade di possibili riflessioni. Un grazie è poco. Davvero poco. Ma non posso non dirlo. GRAZIE.
“La prima cosa che mi è venuta in mente quando ho finito di leggere Esbat è che si tratta di una profonda riflessione narrativa sulla narrazione stessa.
Poi mi è venuto in mente Arthur Conan Doyle e il primo caso conosciuto in cui un personaggio letterario ha messo in discussione l’autorità del proprio autore.
Sherlock Holmes iniziò abbastanza presto a vivere di vita propria. Come si sa, il 221B di Baker Street non esisteva alla fine del XIX secolo. Ciononostante parecchia gente iniziò a scrivere a quell’indirizzo lettere che chiedevano l’ingaggio del celebre investigatore privato per risolvere casi reali. Oggi il numero civico esiste davvero, dal momento che ci hanno costruito una casa museo piuttosto trash, e la fermata della metropolitana di Baker Street è piastrellata con il profilo inconfondibile di Holmes.
Anche Conan Doyle, come la Sensei di Esbat, a un certo punto decise di fare finire in gloria il proprio personaggio, ovvero di farlo precipitare giù da una cascata nell’abbraccio mortale con il suo acerrimo nemico, il professor James Moriarty. Anche lui non immaginava che ne sarebbe seguita una rivolta dei fan. Il giornale su cui venivano pubblicate le avventure di Holmes, lo “Strand Magazine”, venne sommerso di lettere di protesta. Tanto scrissero e tanto fecero che Conan Doyle fu costretto a far resuscitare il proprio eroe e a motivarne l’assenza triennale con un espediente improbabile. Conan Doyle immaginò che Holmes, salvatosi dall’affogamento, avesse intrapreso un viaggio verso Oriente (fino in Tibet!) e fosse poi tornato in Inghilterra per condurre vita ritirata. Quando poi, ormai in là con gli anni, scrisse le ultime avventure di Holmes (questa volta davvero), decise di collocarlo in un buen retiro nel sud dell’Inghilterra, ad allevare api.
Ecco, il primo tema che Esbat affronta e sviscera (letteralmente, in certi casi…) è la relazione tra autore e personaggio. Un personaggio seriale può diventare un’ossessione per il proprio autore, una specie di condanna, senz’altro il fulcro di una relazione di amore e odio. Solo che spesso non si tratta di una relazione a due, bensì multipla, perché coinvolge anche i fan.
Il secondo tema del romanzo infatti è senz’altro il fandom. Al centro di questo rapporto complesso c’è la passione, che a volte può trasformarsi in ossessione insana, altre volte può servire a fare delle cose utili per la propria vita. Ci sono due personaggi speculari nel romanzo: il webmaster Sasaki, autorecluso nel mondo virtuale della rete, e l’adolescente in crisi d’identità Ivy. Uno soccombe alla propria ossessione, compiendo la vendetta contro il tradimento della comunità da parte dell’autrice e realizzando così il contrappasso dovuto; l’altra reagisce alla cattiveria del mondo circostante proprio attraverso la messa in discussione dell’autorità autoriale e rivendicandone una parte per sé, cioè proseguendo la storia con altri mezzi. Dio (anzi la Dea) salvi la fan fiction che salva gli autori da se stessi.
Divagazione. Ieri sera ho visto la puntata di CSI in cui la scientifica di Las Vegas indagava sul fandom di Star Trek (trasformato in “Astro Quest” per ovvie ragioni di copyright). Il caso verteva sull’omicidio di un giovane regista indipendente che aveva provato a resuscitare la serie aggiornandola alla sensibilità contemporanea. I fan si ribellavano all’inserimento nella serie di scene ultra-violente ed eroi piagnucolosi. Indagando sul caso, due poliziotti della squadra, entrambi fan di Astro Quest, proprio grazie al medium della passione comune riuscivano a portare alla luce l’attrazione reciproca rimasta latente per anni. Fine della divagazione (che però avrà una ripresa alla fine).
Il rapporto tra vita reale e fiction ricalca quello tra storia umana e mito (racconto), antico quanto il mondo. Esbat ce lo racconta agganciando il tema al dipanarsi serrato della trama. Ed è qui che entra in campo la Dea, evocata a più riprese, ma mai presente, ancorché incarnata dai personaggi femminili che dominano il racconto. Al centro della trama c’è la lotta/accoppiamento del demone maschile Hyoutsuki, bello e terribile come Apollo, con la Signora della Storia, l’Autrice, la Sensei, che finirà per assumere il terzo volto della Dea, quello mortifero e sanguinario.
Da “gravesiano” non posso non apprezzare la scelta di mettere in scena non già l’idealizzata Gilania (pure evocata da alcuni personaggi), ma la crudezza inesorabile del divino femminile, portatore di vita e di morte, cioè custode della ciclicità e del divenire, che poco o nulla ha a che fare con il mito di un fantomatico egualitarismo femmineo delle origini. La forza di Esbat è quella di far incontrare questo femminile arcaico con le dinamiche contemporanee che coinvolgono le donne di ogni età: in menopausa e non, nostalgiche dell’amplesso o spaventate dal primo rapporto sessuale, senza sangue lunare e imenaico o alle prese con lo stesso (l’intera narrazione, infatti, è scandita dai cicli lunari/mestruali). La Dea quindi c’è ma non si vede, perché agisce attraverso i personaggi stessi. Belli, tra l’altro, nient’affatto scontati (eccetto forse uno, non irrealistico ma senz’altro un po’ stereotipato: la madre di Ivy, “puttanesca” e in guerra contro il tempo).
Proprio il sangue – l’elemento chiave di Esbat, insieme alla luce della Luna che continua a rifrangersi sui capelli candidi del demone – mi riporta all’episodio di C.S.I. visto ieri sera. Alla fine si scopre che le cause dell’omicidio non andavano cercate nella delusione e nella sete di vendetta dei fan di Astro Quest, ma nell’avidità, cioè nelle dinamiche di profitto (e di copyright) capitalistiche. Qualcosa su cui meditare, credo. Così come dà da pensare il dialogo tra i due agenti della scientifica a proposito del “genere”. A un certo punto uno dei due sostiene che “Francis il mulo parlante” è una serie di fantascienza, perché si svolge in un piano temporale parallelo in cui gli equini hanno sviluppato una laringe e un cervello in grado di farli ragionare e parlare. Il collega ribatte che al massimo si potrebbe definire un serial “fantastico”. Non necessariamente, replica l’altro: Asimov aveva ipotizzato un futuro in cui altre specie animali avrebbero potuto sviluppare le stesse abilità umane in forme diverse. Quindi “Francis” può rientrare nel genere ucronico-fantascientifico.
Ecco, forse Esbat potrebbe essere definito un romanzo fantastico, cioè un romanzo di attraversamento tra due mondi, due piani di realtà. Ma è poi così importante scegliere come etichettarlo? Ed è poi così “irrealistico” che l’altro mondo, quello delle narrazioni, viva un tempo proprio, parallelo e saltuariamente intersecato al nostro? Andatelo a dire alla buon’anima di Sir Arthur Conan Doyle (che – per inciso – trascorse gli ultimi anni della propria vita occupandosi di spiritismo, cioè di comunicazioni intra-mondi…). Dov’è stato Holmes in quei tre anni durante i quali il suo autore lo ha perso di vista? Cos’ha fatto il celebre detective dopo che il suo autore lo ha pensionato?
Per saperlo basta rivolgersi alla fan fiction e leggere due romanzi: il geniale “Il Mandala di Sherlock Holmes” di Jamyang Norbu (Instar Libri, 2002) e il meno bello, ma altrettanto interessante per la collisione creativa tra il misogino Holmes e una protagonista femminile, “L’allieva e l’apicultore” di Laurie K. King (Neri Pozza, 2006).
Be’, tutto questo divagare per dire: complimenti Lara”.