Tu stessa, per inseguirlo (racconto-premio)

Tu stessa, per inseguirlo

di Lara Manni

Questa storia è stata scritta su commissione di Andrea Cattaneo fra il 28 febbraio e il 1 marzo 2012.

Rimane poca cenere sul fondo, e solo qualche frammento d’osso. Del resto sono passati cinque anni, e dunque sessanta mesi, e per sessanta volte, ogni 15 del mese, Cecilia ha preso fra le braccia l’urna di metallo dorato, l’ha infilata nello zaino e ha pedalato fino al mare. Ha scelto il tratto di spiaggia libera davanti a Mastino. E’ vero, c’era sempre qualcuno, specie d’estate, che beveva prosecco sotto gli ombrelloni di tela bianca del bar, oppure un ragazzo con la muta da windsurf che, proprio mentre lei infilava la mano nell’urna, usciva dall’acqua – i capelli fradici sugli occhi, le guance arrossate dal vento: come le ricordava Michele, come le mancava il respiro quando le passava vicino.
Ma non è mai stato importante essere sola, in quel momento. Anzi,  Cecilia trovava persino piacevole l’idea che gli altri la guardassero mentre tirava fuori il pugno con la manciata di cenere e poi, sollevando il braccio verso l’alto, apriva le dita e lasciava che i granelli grigi e bianchi le si posassero sui capelli e ricadessero sulla spiaggia, confondendosi con la sabbia. Non c’era nulla di cui vergognarsi: in un certo senso, era come se fosse ancora con Michele, davanti allo stesso tratto di mare, a fumare guardando il tramonto e a camminare l’una sulle impronte lasciate dall’altro. O seduti al bar, a dividersi la bruschetta con le telline e a risolvere il Sudoku del Sole 24 Ore.
Cecilia non ha più comprato il Sole 24 Ore e il profumo delle telline le dà la nausea. Dopo il primo periodo (supina, al centro del letto matrimoniale, le gocce di Valium che tingono di rosa pallido il  bicchiere d’acqua,  la lampada sul comodino accesa e le tende tirate) ha imparato a evitare tutto quello che le ricorda Michele. Via le scarpe, i maglioni, i Dvd. Via il motorino, l’abbonamento a Sky, gli album di fotografie, il rasoio, il tubetto di arnica. Il bar dove facevano colazione, lui cappuccino, lei spremuta d’arancia: via. Via anche la spremuta d’arancia, ora beve tè verde a casa,  ascoltando solo musiche che Michele non ha conosciuto. I Nine Inch Nails. Gli Slapshot. I Killing Joke. Michele amava Keith Jarrett e il barocco italiano: la nuova musica di Cecilia era quanto di più lontano si potesse  immaginare. L’ha scelta per questo.
Dalla cancellazione di Michele era rimasto fuori solo il numero 15.  A un mese dalla sua morte, il 15 giugno, Cecilia si era alzata dal letto, aveva aperto le tende e sussultato vedendosi riflessa nello specchio (una cosa bianca, magra e sporca, con occhi enormi che sporgevano dalle orbite), aveva fatto una doccia calda e aveva sollevato per la prima volta l’urna dal comodino in camera da letto. Una volta aveva promesso a Michele che, se fosse morto prima di lei, lo avrebbe cremato e avrebbe disperso le ceneri. Aveva mantenuto il patto, ma diluendolo nel tempo, un pugno di Michele ogni trenta giorni, per farlo rimanere vicino a lei il più possibile. Solo così aveva potuto riprendere a uscire di casa, a lavorare, mangiare, dormire e accorciare ogni giorno un po’ della distanza che li separava.

 

Fino alla Morte – è un limitato Amare –
Il più scarso dei Cuori esistenti
Ti reggerà finché il tuo privilegio
Di Finitezza – sia spento –

Ma le ceneri sono quasi finite, e oggi è il 15 maggio, se non bastasse: il quinto anniversario da quando la faccia di Michele si è accartocciata ed è diventata grigia e poi di un bianco che era quasi azzurro, e gli occhi si sono sbarrati mentre una mano si allungava verso Cecilia, e prima che lei avesse potuto prenderla Michele non era già più Michele, ma un corpo che si abbandonava contro le pareti dell’ascensore. L’ascensore si era fermato – aveva pigiato lei il bottone, confondendo Stop con Allarme – tra il quinto e il sesto piano e là, nella mente di Cecilia, sarebbe rimasto immobile per sempre.
Aneurisma, le aveva detto il medico, molte gocce di Valium dopo, e dopo che l’ascensore era tornato al piano e il corpo di Michele spogliato, lavato, sezionato e poi ricomposto e rivestito. “Posso parlargli?”, aveva risposto.
Le gocce erano aumentate di numero e frequenza, finché Cecilia aveva capito che no, non gli avrebbe parlato Mai Più, con le maiuscole. E che non avrebbero Mai Più fatto la pace, e le ultime parole di Michele sarebbero state “Ho sposato una stronza”.
Cecilia fissa l’urna, i riflessi del sole sulle parole “Michele Ravasi” le fanno lacrimare gli occhi, o forse è quella frase che le mangia il cervello da cinque anni a farla piangere.

Sei una stronza, tesoro, e hai ammazzato tuo marito. Gli hai detto cose così orribili che gli è scoppiata una vena nella testa. Stronza è il minimo che potesse dirti. Dovresti farlo incidere sulla tua urna, quando toccherà a te. Stronza. Senza altro nome. Stronza.

C’era un solo motivo che poteva portarla a litigare con Michele, da quando erano due studenti  di fisica che alle otto di sera si stropicciavano gli occhi dopo una giornata passata sui libri e volavano in motorino a bere vino e mangiare uova sode, sempre nella stessa enoteca del Gianicolo. Michele non tollerava le mezze misure. Tutto o niente. E quando – dopo che avevano comprato la casa a Roma e quella a Fregene, e nel frattempo si erano persino sposati, senza invitare nessuno – aveva capito che non sarebbe diventato un Pauli, un Planck, un Born, aveva lasciato la fisica. “Ma cosa farai?”, gli aveva gridato Cecilia, inseguendolo e inciampando sulla spiaggia, mentre il coocai di un gabbiano li accompagnava. “Il fattorino”, aveva risposto Michele. “E’ divertente. Consegni pacchi. Magari anche pizze. Cene giapponesi. Non stai mai fermo nello stesso posto. Possiamo permettercelo. Tu guadagni bene e io contribuirò, questo te lo prometto. Meglio così che essere a metà scala. Non lo sopporto, Cecilia. Guardare sempre quelli che sono sul gradino più alto. Voler essere come loro. Invidiarli. Cominciare a spargere pettegolezzi su di loro. Hanno fatto carriera perché sono leccaculo, raccomandati, figli di papà. Abbiamo una vita sola”.
Si era fermato, a quel punto, e le aveva sorriso. Era bellissimo quando sorrideva. Era bellissimo sempre. Cecilia amava ogni piccola parte del suo corpo, gli occhi stretti come quelli dei gatti, i capelli neri che sfioravano le spalle,  il modo in cui le baciava il collo tutte le sere, prima di fare l’amore. Quel giorno, però, tutto quello che provava per lui, il desiderio e la stima e infine tutto quello che le aveva fatto pensare che Michele era la ragione prima per vivere, non era bastato. Oh, certo, aveva fatto come voleva. Aveva lasciato l’università e in pochi minuti aveva smesso di essere il docente associato più giovane della cattedra di fisica teorica. Aveva davvero cominciato a fare consegne. Pacchi. Pizze. Cene giapponesi. Proprio come aveva detto.
La nuova vita gli piaceva, quella era la verità. Ogni sera, quando lei tornava a casa ancora immersa nei suoi pensieri da lavoro (era riuscita a ottenere un post-dottorato all’Istituto dei sistemi complessi, lavorava in un team che si occupava di funzionale della densità), ancora con la luce al neon negli occhi e l’odore di fumo nei capelli (tutte quelle pause sigaretta e quei caffè, che non aveva messo in conto: quella vita stropicciata, che eppure le piaceva tanto), lui le faceva trovare un bicchiere di Traminer freddo sulla tavola già apparecchiata, e in forno c’erano alette di pollo alla paprika, e un’insalata di spinaci nella ciotola di ceramica azzurra che avevano comprato insieme in Umbria, e c’era musica (Albinoni, o The Celestial Hawk) dal lettore cd. Michele sembrava molto più felice di quando era un giovane fisico lanciato verso un’invidiabile carriera accademica. Eppure, Cecilia non lo capiva. Non era ambiziosa, ma amava il suo lavoro: come era possibile lasciare tutto, all’improvviso, solo perché non c’era un Nobel all’orizzonte? Non era forse, questa, una forma ancora più estrema di ambizione? Non era un modo per rimproverare lei, sia pure con un sorriso e un bacio, perché continuava a salire la scala che Michele aveva abbandonato?
Sì, sono una stronza, mormora all’urna. E tu lo sapevi, eppure continuavi ad amarmi. Anche se la tua scelta ci separava ogni giorno di più. Te n’eri accorto. Avevi capito che non era solo per te, per la tua vita, che mi sentivo ferita. Ma per me. Perché mi vergognavo a essere la moglie di un fattorino. Per questo abbiamo litigato. Tante volte. Ma soprattutto il giorno in cui sei morto. Quando abbiamo preso l’ascensore insieme, come non capitava quasi più. Quel pomeriggio è capitato. Purtroppo è capitato.

Era uscita presto dall’istituto. Il suo Senior Researcher le aveva detto che  poteva staccare, che stava facendo un buon lavoro e che sicuramente sarebbe stata riconfermata alla fine dei tre anni. Una buona notizia da raccontare a Michele, aveva pensato Cecilia. Potevano andare a cena fuori, per esempio: sarebbe stata perfetta anche una cena con vino e uova sode all’enoteca, come quando erano ragazzi. E se i bicchieri fossero diventati tre e poi quattro e magari cinque,  avrebbero potuto riparlare della decisione di Michele. Forse c’era una possibilità di tornare indietro. Lo avrebbero ripreso, all’Università? Magari sì. L’idea, insomma, era quella di arrivare per prima a casa, infilarsi sotto la doccia, depilarsi le gambe. Mettere il vestito rosso che non poteva indossare in ufficio perché era un po’ troppo scollato. Farsi bella per suo marito, e riportarlo sulla strada giusta.
Invece, suo marito era rientrato altrettanto presto e aspettava l’ascensore con una busta della Coop in mano e una copia del Sole 24 Ore sottobraccio. Le aveva sorriso: “Sei già qui. Benone. Stasera, risotto ai gamberi, film e Sudoku, ti va?”. Era una sciocchezza, Cecilia lo sapeva, però il fatto che Michele avesse deciso per lei, che decidesse sempre per lei, aveva mandato in pezzi tutti i buoni propositi. D’accordo, niente serata da innamorati. “Non mi va”, aveva detto. “Non c’è niente che vada”, aveva aggiunto, quasi godendo dell’espressione stupita e addolorata di Michele. “Preferisci gli spaghetti?”, le aveva chiesto. “No”, aveva risposto lei, spalancando con un calcio le porte dell’ascensore, stupita della sua stessa irritazione.
Michele l’aveva seguita, aveva richiuso la porta. Sid ghei, c’era scritto a pennarello. Un ragazzino che aveva impresso nel metallo la traccia del suo primo innamoramento nazista, traducendo a orecchio Sieg Heil. Quello del terzo piano, probabilmente. Stupido. Stupidi tutti, aveva masticato fra sé Cecilia. E prima che Michele potesse chiederle cosa c’era che non andava, e se per caso avesse problemi al lavoro (perché queste, sicuramente, erano le domande che le avrebbe fatto) lo aveva aggredito: “Fino a quando andrà avanti questa buffonata?”
Michele aveva premuto il tasto dell’ottavo piano.
“Quale buffonata?”
“Fare il fattorino! Lasciare l’università! Fare finta di essere felice!”
“Io sono felice, Cecilia”.
Primo piano.
“Davvero? Consegnando pizze? Ammettiamolo. E da dove viene questa presunta felicità? Dal fatto di esserti liberato di tutte le responsabilità? Di aver lasciato a me il carico?”
“Ma cosa dici? Anche se tu volessi smettere di lavorare troveremmo il modo…”
“Io troverei il modo! Io! Non tu!”
Secondo piano.
“Cecilia, pensi che mi stia tirando indietro? Non faccio abbastanza per noi due?”
“No”.
“Cucinare non è abbastanza? Fare la spesa non è abbastanza? Stare con te, cercare di essere felici non è abbastanza? Perché vuoi che faccia una vita che non mi piace?”.
“Non è vero che non ti piace. Eri bravissimo. Lo sei ancora. E’ che hai una fottuta paura”.
“Paura di cosa?”
Terzo piano.
“Di cosa, Cecilia?”
I muri scrostati. La rabbia. La rabbia che pulsa, rossa, nelle tempie di Cecilia.
“Vuoi dirmi di cosa avrei paura, per favore?”.
“Paura di essere…
Quarto piano.
“…inferiore a me. Di vedermi salire il fottuto gradino più in alto del tuo”.
La faccia di Michele. Pallida per la delusione. Il dolore nei suoi occhi.
“Tu pensi questo? Pensi questo di me. Allora io…”
No, non pensavo questo. Non è vero. Volevo solo scuoterti, ma..

“…ho sposato una stronza”.

Ma Colui la cui perdita ti procura
Una tale Indigenza che
La Vita troppo abietta in sé
D’allora in poi la imita –

 

Non andrà alla spiaggia, oggi. Non se la sente di gettare al vento l’ultima manciata di quel che Michele è stato. Prenderà l’urna, invece, e tornerà alla casa di Roma, che è rimasta abbandonata in tutti questi anni. Non ha voluto affittarla. Si è trasferita nel monolocale di Fregene che usavano d’estate, per camminare sulla spiaggia e fare l’ultimo bagno al crepuscolo e, quando ancora Michele lavorava, studiare. Quante sere ha passato sui testi di Morris, Thorne e Yurtseve. Quante volte hanno fatto l’alba discutendo di materia esotica e del Ponte di Einstein-Rosen. C’era stato un periodo in cui Michele si era fissato con i wormhole, i loop temporali. Appena prima di lasciare l’Università.
Cecilia sta già infilando l’urna nello zaino. Ecco. C’è un pensiero che le ronza nella testa, coprendo la malinconia e il dolore e il senso di colpa che in sessanta mesi si sono depositati su di lei come polvere. Le parole di Michele, una sera, mentre bevevano birra seduti sulla sabbia umida. “Ognuno ha il proprio tempo. E ogni tempo ha un giro. Basta entrare nel giro per ripercorrerlo. Basta trovare il punto d’ingresso. Il problema è sempre stato questo”.
Ognuno ha il proprio tempo.
Cecilia scuote la testa, chiude lo zaino. E’ vero. Il suo tempo si è interrotto esattamente cinque anni fa, in un ascensore bloccato fra il quarto e il quinto piano, mentre scatole di riso e confezioni di Caprice de Dieux rotolavano dalla busta di plastica e il corpo di Michele scivolava a terra. E’ per questo che oggi deve tornare a casa. La loro vera casa. Per entrare nel  suo buco e camminare sul suo ponte, e chiudere la curva. La fisica non c’entra. Deve, semplicemente, cercare di continuare a vivere senza Michele. O accettare una volta per tutte che non è possibile farlo.
In macchina, sceglie un cd che non ha più ascoltato da allora. E’ La foresta incantata di Francesco Geminiani. Michele lo adorava. Tamburella con le dita sul volante. Curva spaziotemporale chiusa. L’oggetto continua a viaggiare nel futuro ma torna, sia nello spazio che nel tempo, al punto da cui è cominciata la linea di universo stessa. Dunque, viaggia nel passato. Primo anno di Università. No, prima. I film, i telefilm. Il giorno della marmotta. Lost. Non esiste. Non è dimostrabile. Da una parte la teoria, dall’altra la vita. Il suo  ponte, o il suo buco, è l’ascensore: non tornerà indietro davvero, ma arriverà all’ottavo piano, come sarebbe dovuto avvenire quella sera, e poi aprirà le finestre e getterà via da là l’ultimo pugno di cenere. Nella loro casa. Completerà la curva. Comincerà a farlo adesso, nel tragitto da Fregene a Roma, ricostruendo nella mente il dialogo interrotto. E terminandolo, finalmente.
Quarto piano.
“Ho sposato una stronza”.
E lei, invece di girarsi contro la parete, respirando forte per non urlare, lo guarda, si passa una mano sugli occhi e poi dice: “Hai ragione. Scusami. E’ colpa mia. Sono io il problema. Mangiamo quel risotto e parliamone, vuoi?”.
Quinto piano.
“Un tuo problema? Perché ti vergogni di avere un marito fattorino? Quando mi è capitato di dover consegnare una busta nel tuo ufficio, ti ricordi? Ricordi come sei impallidita, quando mi hai visto entrare? E come eri nervosa quando ti ho baciato la mano, per giocare, e il tuo capo ti ha chiesto se mi conoscevi? “E’ mio marito”, hai risposto, e ti sei messa a ridere, ma ti è venuta così male, quella risata, che sono stato io a sentirmi in imbarazzo per te”.
Sesto piano.
“Non è vergogna. O magari sì, magari in parte lo è. E’soprattutto  rabbia. Perché tu, tu sei sempre stato il più intelligente, il più bravo. Potevi davvero vincere un Nobel. E hai buttato via tutto. E io non capisco perché. Me lo hai spiegato, e non riesco ancora a capirlo”.
Settimo.
La mano di Michele sulla guancia. Una carezza che è quasi una stretta, che vuole raccogliere tutto quel che Cecilia è fra le dita.
“Perché ognuno ha il suo tempo. E il mio voglio passarlo con te. Se avessi continuato, il mio lavoro, le mie formule, la voglia di andare avanti fin dove nessuno è stato, ti avrebbero cacciata via. Saresti diventata sempre meno importante. E io non voglio. Il mio tempo è questo. Il mio tempo sei tu”.
Ottavo.
Non c’è più niente da dire. C’è da abbracciarsi e rimanere stretti finché l’ascensore non arriva perfettamente al piano e non si sente il clac che annuncia che le porte si possono aprire. E poi girare la chiave e correre in camera da letto (ma va bene anche il divano, il pavimento, qualsiasi posto) e continuare finché non ne potranno più, e allora si rivestiranno e andranno finalmente a cucinare il risotto con i gamberi e…
Cecilia si asciuga le lacrime. Questo è il suo tempo, e Michele ha terminato il proprio.
Non c’è altro.
Parcheggia l’auto davanti al bar, come faceva sempre. Cinquanta metri. La libreria non c’è più, e neanche il negozio di giocattoli. Al loro posto c’è una banca. Capita. Nessuno la guarda. Nessuno la saluta. Capita anche questo. Il numero 81. Il vialetto con la palma. Scala B. La chiave funziona ancora, non ci avrebbe scommesso. I vasi con le piante, sempre un po’ secche. L’ascensore è al piano.
Questo è il mio tempo
, mormora Cecilia, aprendo le porte con un calcio, mentre singhiozza di dolore e frustrazione e si gira per chiudere la porta.
“Non sei cambiata”, dice la voce. E il cuore di Cecilia viene trafitto da una spina di ghiaccio. Lo zaino cade a terra, fa un rumore sordo.
E io sono impazzita. Per il dolore. Non dovevo venire qui.
Non.
“Oh, sì, dovevi venire. Ti ho aspettato tanto. Ho persino pensato che non ti avrei più rivista. Cecilia. Cecilia, amore, voltati. Ti prego”.
E’ la voce di Michele. Non può esserci nessunissimo dubbio. E’ la voce di Michele e Michele è morto, e lei è impazzita. Oppure no. Oppure Michele la sta aspettando per punirla, e sono cinque anni, e sessanta mesi, che la aspetta e quando si girerà lo vedrà, ormai pochi brandelli di carne gialla che penzola dalle ossa, e un teschio con qualche capello impregnato di polvere e di terra. No. Che dice? Michele è stato cremato. Non ci sono ossa. Solo cenere. Cenere.
“Cenere, hai ragione. Ce n’è ancora un pugno nell’urna. Non è quello che conta. Vuoi girarti o devo continuare a leggerti nella testa? E’ scomodo”.
Ridacchia, ed proprio è la sua risata, e non ci sono gorgoglii di tomba o suoni sinistri. E’ la risata limpida di suo marito.
Mio marito morto.

Secondo piano.
Ma infine, si gira. E il suo marito morto è davanti a lei, con la stessa camicia azzurra di cinque anni fa e gli stessi pantaloni color kaki che a lei non piacevano. E tutti i suoi capelli e la carne e i muscoli e gli occhi e…
“Non è vero”, mormora Cecilia, con una voce rauca che non sembra sua.
“E’ vero”, sorride Michele. “Lo è sempre stato, ma non hai mai voluto capirlo”.
“Capire cosa?”
Terzo piano.
E’ tutto come prima. In un angolo del pavimento vede anche la busta della Coop e la copia del Sole 24 Ore.
E allora il cuore di Cecilia fa una capriola.
“Sono tornata indietro, Michele? E’ un wormhole? Un ponte? Sei riuscito davvero a crearlo? Posso salvarti? Posso portarti in ospedale? Posso parlarti?”.
Quarto piano.
Michele allunga una mano verso di lei. “No e sì. Puoi parlarmi, non puoi portarmi in ospedale. Quanto alla salvezza. Direi che a questo punto siamo salvi tutti e due”.
Cecilia non capisce. Sa solo che deve allungare, subito, subito, la mano verso il pulsante di Allarme, e chiamare, gridare, che avvertano un’ambulanza, adesso, perché suo marito sta male. Starà male. Sta-per-stare-male. Cosa dirà al portiere? Sono in un loop temporale e mio marito sta per morire DI NUOVO e per l’amordiddio mi aiuti?
Quinto piano.
Quinto? Ma se fosse stato un loop l’ascensore doveva fermarsi fra il quarto e il quinto. Ripetere la scena. E ancora, e ancora, dallo stesso punto, finché non fosse riuscita a cambiare le cose.
Michele fa un respiro profondo. O qualcosa che sembra un respiro profondo. Insomma, ha lo stesso suono, ma a guardarlo, a guardarlo bene, lui..
“Vedi, Cecilia? Ce l’abbiamo fatta. Abbiamo superato il quarto piano, e fra poco supereremo il quinto. Significa che siamo liberi, e che sei riuscita a tornare”.
…lui non…
“A tornare da dove?”, balbetta.
Michele apre le braccia, la stringe. Ritrova il suo odore, la ruvidezza della stoffa, la delicatezza della pelle.
Li ritrova davvero, oppure è la sua mente che ha riattivato il ricordo? Perché infine…
Sesto piano.
…infine Michele non respira.
“Dal luogo dove ti eri persa”, le soffia fra i capelli. “Mi sei mancata tanto, amore mio. Ma non sapevo come richiamarti indietro. Ci ho provato in mille modi, ma tu eri chiusa in un buco tutto tuo. Nel tuo tempo. Non volevi saperne di venire da me. Dovevi percorrere la curva fino in fondo. L’ho immaginato: anzi, ho sperato che fosse così”.
Settimo.
Il mio tempo? Chiusa? Dove? Ed è importante saperlo, ora che ritrova (da quale luogo?) l’abbraccio di suo marito?
Gli accarezza le guance, passa le dita sulle sue labbra.
“Io…non so di cosa stai parlando”.
Ottavo.
L’ascensore si ferma al piano. Michele la allontana, con dolcezza, la prende per mano. C’è un’altra targhetta sulla loro porta, di ottone lucido. “Studio Alessi”, c’è scritto. Cecilia corruga le sopracciglia. “Quella è casa nostra. L’abbiamo comprata insieme e io non l’ho mai venduta. Che cazzo è lo Studio Alessi?”.
“Era casa nostra. Cinque anni fa” La abbraccia da dietro, le dà piccoli baci sui capelli. “Quando eravamo vivi, amore mio”.
Le precipita addosso come vento da una finestra spalancata. La finestra del pianerottolo. Quella che ha davanti. Quella che HA spalancato cinque anni fa, quando l’ascensore era stato portato al piano, e il portiere era accorso a sollevare il corpo di Michele che – lei lo sapeva, lo sapeva irreversibilmente – si sarebbe raffreddato in una manciata di tempo. Tempo. L’ha spalancata. Il suo tempo. Il tempo di Cecilia. Otto piani. Non avrebbe neanche capito. E non ha pensato, no, mentre prendeva lo slancio e …
Trema, se si può tremare dopo la morte.
“Dove sono stata, fino a questo momento? Perché non sono stata subito con te?”
Michele continua a baciarla.
“Non lo so. Forse avevi bisogno di percorrere tutta la curva. Di parlarmi, almeno una volta, e lasciare che l’ascensore arrivasse al piano. Oggi ci hai pensato, dopo tanti anni, e alla fine sei qui. Scusa se dico “oggi” e “pensato”. Non è facile trovare, sai, le parole adatte”.
C’è un brivido (sarà giusto chiamarlo così?, si chiede) che la percorre tutta, ed è un brivido di liberazione e di delizia. Si gira, e restituisce l’abbraccio.
“Le troveremo insieme”, mormora.

Finché – Somiglianza perfetta –
Tu stessa, per inseguirlo
Alle Delizie della Natura – abdichi –
Attestato d’Amore – in qualche misura –

Emily Dickinson

 FINE

 

N.B. E’ un racconto molto diverso dal precedente, come si può notare. E immagino che si discosti dalle aspettative del mio committente. Che erano queste:

 

“la storia che vorrei tu scrivessi per me parla di una donna di 35/40 anni, un genio della scienza e della tecnica e una frana totale nei rapporti umani. Questa donna si è innamorata del fattorino che consegna la posta al suo ufficio ma non riesce a dichiararsi… Un giorno, con una scusa, si infila con lui nell’ascensore, ha con sé una macchina del tempo di sua invenzione. Il suo piano è semplice: da soli, in ascensore tentare il primo approccio e, se va male, riprovare, tornando indietro nel tempo al momento in cui si infila nell’ascensore con lui. Le “prove” possono virtualmente essere infinite e le reazioni del fattorino possono variare parecchio virando la storia nella direzione che tu preferisci (comico, romantico, horror, erotico) oppure esercitando tutte le opzioni possibili (be’, tutte direi di no… sono infinite!).
Il fattorino non ha ovviamente ricordi dei salti temporali ma, se vuoi complicare ulteriormente la cosa e divertirti di più, potresti fargli avere dei déjà vu. Inoltre, lascio a te la decisione, se e quando l’ascensore arriverà al pianterreno, non è detto che questi continui viaggi nel tempo (che richiedono una quantità enorme di energia?) abbiano lasciato immutato il continuum spazio-temporale del mondo al di fuori dell’ascensore.
Insomma, in parole povere vorrei che scrivessi una storia di Fantascienza con un loop temporale. Forse ti ho dato più elementi del necessario: cambia, modifica, aggiungi e leva quello come preferisci. E’ solo un canovaccio, sta a te interpretarlo!”

Ho seguito il consiglio. Cecilia ha fra i 35 e i 40 anni, è indubbiamente un genio nel proprio lavoro e non troppo versata nei rapporti con gli altri. Inclusi quelli con suo marito. Innamorata è innamorata. E il fattorino c’è e le consegna effettivamente la posta, sia pure una sola volta. E’ ugualmente vero che vorrebbe “dichiararsi”, ovvero ricomporre lo strappo terribile che l’ha separata da Michele.
D’accordo, siamo onesti: ho volto a modo mio alcuni punti. Non c’è una macchina del tempo se non nella mente di Cecilia, che ripensando per la prima volta in dettaglio a quanto è accaduto in ascensore crea un proprio loop temporale. I tempi sono molti, come si dice in alcune teorie, peraltro. Le prove non sono infinite ma sono soltanto due: quella mentale di Cecilia e quella in cui incontra nuovamente e definitivamente Michele. E, ah, non c’è pianterreno: l’ascensore sale e non scende.

Insomma, non è “esattamente” una storia di fantascienza. La occhieggia. Però è una storia d’amore. Andrà bene ugualmente?

13 Risposte to “Tu stessa, per inseguirlo (racconto-premio)”

  1. Andreadrea Says:

    No, non va bene, ne voglio un altro! XD
    Scherzo.
    Lara è bellissimo! Mi inchino alla tua bravura!

  2. Vale Says:

    Ho i brividi! Bellissimo!

  3. Lara Manni Says:

    Chiedete e vi sarà dato 🙂 Ho scoperto che scrivere su commissione mi piace! (grazie!)

  4. Laura atena Says:

    Wow Lara!!! E’ vero sono due storie molto diverse eppure entrambe raccontano di ricongiungimenti molto particolari!
    Il racconto per Andrea ti lasciava meno libertà, ma credo che tu possa serenamente dire di aver vinto la sfida con te stessa!!!
    E’ camminando per territori mai esplorati prima che si fanno le scoperte più sorprendenti, quindi brava!!

  5. Lara Manni Says:

    Caspita Atena, non ci avevo pensato. Sono tutte e due storie di ricongiungimenti. Vedi che senza i lettori gli autori non saprebbero…cosa scrivono? 🙂 Grazie a te, di cuore.

  6. Sara Says:

    Ecco, mi hai fatta piangere
    (ma io non faccio testo, sono diventata un rubinetto ormai).
    E’ bellissimooooooooooooooooooooooooooooooooooo!

  7. Lara Manni Says:

    Grazie!!!!

  8. Vincent Mancuso Says:

    Bella!!! mi è piaciuta molto.

  9. Lara Manni Says:

    E grazie anche a te 🙂 Davvero!

  10. M.T. Says:

    Il giudizio in una parola: ottimo 🙂

  11. Ilaria Says:

    Bellissimo racconto, è la prima volta che leggo qualcosa di tuo (di narrativa). E’ stato bello per me, nel leggere, il “salto” che ha fatto il mio cuore quando è partito il loop temporale di Cecilia nell’ascensore… ha proprio cambiato ritmo, e poi non mi aspettavo proprio quell’esito della storia! Complimenti. Dopo vado a leggere l’altro 🙂

  12. Lara Manni Says:

    Davvero, grazie infinite! 🙂

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