Archive for luglio 2011

Le rose di Hitler

luglio 29, 2011

In un famoso racconto di Harlan Ellison, Hitler painted roses, si parla del Male. Anzi, si parla dell’ingiustizia cosmica. Perché in quella storia la destinazione post mortem non viene decisa in base al Male commesso, bensì in base a quello che gli altri esseri umani pensano. La protagonista, dunque,  muore per esecuzione capitale anche se non ha commesso i delitti di cui è accusata: ma tutti sono convinti che sia così. Dunque, va all’inferno. Mentre il suo  colpevole amante, che è il responsabile di quelle morti, si trova in paradiso. E Hitler?Anche nell’unico giorno in cui i dannati possono lasciare l’inferno per compiere le loro visite, sceglie di rimanere, e di continuare a dipingere rose sulle porte infere. Nessuna punizione, apparentemente, per il malvagio tra i malvagi: ma la possibilità di appagarsi con quella che fu la sua terribile frustrazione. Pittore mancato, potrà dipingere petali di rosa per l’eternità.
Laurie, nella discussione che si è sviluppata sotto gli altri post, chiedeva cosa fosse il Male. Ellison risponde “è quello che gli altri pensano di noi”. E sottintende che anche nel cuore di un mostro può agitarsi qualcosa che lo rende umano. Tralci di rose dipinte.
Le risposte sul Male, per gli scrittori, possono essere infinite: Caos (ma potrebbe essere malvagio anche l’Ordine), hybris. Oppure ancora, come scrive Wu Ming 4 nel suo commento, non-scelta.
Ed ecco che la questione, secondo me, non è quella di definire il Male in base all’idea di Bene: per esempio, creando la parte antagonista in base alla propria concezione di Eroe Positivo. Ma indagare il punto di impatto, la nascita del conflitto: quello che separa, e che sempre separerà, e che sempre ci chiederà di fare delle scelte.
Il fantastico, credo, non può prescindere da questo.

Eichmann era un uomo come tanti

luglio 28, 2011

Ci sono pregiudizi durissimi a morire. A proposito di Tolkien, per esempio, di cui si è parlato negli ultimi due post, mi è capitato di discutere or ora  sul fatto che il medesimo fosse un “fondamentalista cattolico” . Da lettrice, posso solo dire che quello che io ho percepito, non essendo -credo – fondamentalista, nè credente, è che Tolkien ha portato l’antica questione del Male nella propria narrazione. E lo abbia fatto così bene da renderla, ancora oggi, non prescindibile.
Qui occorrerebbe un saggio, e non qualche appunto su un blog: però, pensare che il Male, nel fantastico, si possa liquidare prefigurando uno schieramento (qui i cattivi, qui i buoni: botte da orbi, incertezza, sacrificio, vincono i secondi) è, secondo la mia percezione, il grande problema della scrittura e della lettura di questa narrativa.
Per quanto riguarda Tolkien, vi rimando alla prefazione fatta da Wu Ming 4 a Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm, alle sue riflessioni su “Tolkien pensatore cattolico” e al suo articolo sull’eroismo a proposito della battaglia di Maldon.
Per quanto riguarda Stephen King, è più che evidente che la questione del Male lo attraversa tutto, dal primo romanzo, quel Carrie di cui parlavo ieri, a The Dome (più che mai, anzi, se si pensa all’assai contestato finale del medesimo). Porsi la questione del Male non significa semplicemente (semplicemente un corno, poi) interrogarsi sull’inconsapevolezza di chi lo compie, ovvero su quella terribile  banalità di cui parla Hannah Arendt: ma accettare che sia presente in ognuno di noi. Si dirà che questo significa semplicemente scrivere buona narrativa, e sapere che nessun personaggio può essere privo di sfumature. Credo che il passo sia ulteriore: interrogarsi sul Male, e non per il tempo di lettura di un articolo di giornale, e non per il tempo di scrivere uno status in cui si invoca il rogo per il mostro della Norvegia, significa ammettere un tremendo irrisolto che riguarda ognuno di noi, senza illudersi che il Male sia quella cosa che si vede in televisione nei bagliori verdastri di un bombardamento, o negli occhi azzurri di un assassino.
Banale. Lo so. Ma se è così banale, perchè ne siamo inconsapevoli?
Come diceva Arendt,”Il guaio del caso Eichmann era che uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali”.

Quando diventi più furbo, non smetti di strappare le ali alle mosche, cerchi solo di trovare dei motivi migliori per farlo

luglio 27, 2011

Siamo quelli di United Colors of Benetton. Siamo cresciuti così, con i volti sorridenti di ogni provenienza sullo stesso sfondo bianco e con la stessa maglietta colorata.
Siamo quelli che si imbattono tutti i giorni nella parola “multicultura” (“multietnico”, in altri casi).
Siamo quelli che comprano “Il cacciatore di aquiloni”.
Eppure, la nostra pancia dice altre cose, e il nostro orrore per quanto è avvenuto in Norvegia include lo stupore del “come fanno ad essere come sono?”. Basti leggere le cronache di questi giorni: sappiamo tutto dei gusti letterari di Breivik, ma gli articoli sulla cultura politica europea da cui emerge sono di oggi, sulla spinta delle dichiarazioni di Borghezio. Ha mille volte ragione Wu Ming 1 quando, a caldo, scriveva:

“dopo aver tentato la più “pavloviana” delle false piste (quella islamica), i media nostrani faranno a gara per “spoliticizzare” l’atto di Anders Behring Breivik, isolandolo dal suo contesto ideologico e politico. Parleranno di un “pazzo isolato”, scriveranno articoli nei quali costui sembrerà un asceta, una sorta di folle poeta romantico, a suo modo nostalgico di un’idea di bellezza. In questo modo, i media diverranno fin da subito suoi complici, fingeranno raccapriccio per il suo gesto ma intanto lo “eroicizzeranno”, occultando un pericolo che riguarda tutti noi.”

Perchè ci interessa? Cosa ha a che fare tutto questo con il nostro lavoro? Perchè dovrebbe riguardare un autore, in particolar modo, di narrativa fantastica?
Perchè quello che io credo (e ribadisco per la millesima volta che la mia è una convinzione personale e non un manifesto, né un’ideologia, né una poetica generale) è che nel delineare i conflitti e i rapporti fra mondi è importante avere, quanto meno, una consapevolezza.
Una, fra le molte: il Male non è mai da una parte sola.
Tolkien lo sa. Rowling lo sa. Lo sa, appunto, anche Stephen King, pur se i suoi romanzi sembrano concludersi con il trionfo del Bene. Ma pensate al finale di Carrie, per fare un solo esempio. Chi è il malvagio e chi l’innocente? E quanto la buona Sue Snell, la compagna che spinge il suo ragazzo ad accompagnare Carrie al ballo fatale, è incolpevole? Non c’era anche lei a tirare assorbenti su Carrie, in apertura del romanzo? Non pensa anche lei che Carrie vada difesa “perchè ciò è bene” e non perchè” lei è Carrie”?
La differenza è qui, e non è piccola.

Ps. E, a vostro parere, è un caso che la madre di Carrie, Margaret White, sia una fondamentalista (cristiana, nel caso), così come tanti personaggi che torneranno nella produzione successiva di King (e che esistevano anche in Tolkien, sotto altre spoglie)?

 

Quella cosa che chiamiamo letteratura

luglio 26, 2011

Non è strano, non vi fa pensare? Tutti chiedono agli scrittori. Non c’è giallista scandinavo che non sia stato evocato, inseguito, intervistato affinché spiegasse il motivo di quel che è avvenuto a Utoya. In un servizio del Tg3 di questi giorni, ho ascoltato il commento rassegnato del giornalista: “bisogna far parlare i romanzi”.
Tutti citano Stieg Larsson (è il più famoso, del resto), qualcuno si è spinto a evocare Lidqvist e i suoi vampiri bambini. Per spiegare cosa? Che l’orrore esiste.
Ma gli scrittori lo hanno sempre detto: se tali erano, se quel che interessava loro non era semplicemente la parola tornita e la trama accattivante, avevano guardato in fondo alla tenebra. Ricordate Conrad?

” Dal momento che ho sbirciato anch’io oltre la soglia, capisco meglio il significato del suo sguardo fisso, che non poteva vedere la fiamma della candela, ma era abbastanza vasto da abbracciare l’universo intero, abbastanza acuto per penetrare in tutti i cuori che battono nella tenebra. Aveva tirato le somme e aveva giudicato. “Che orrore!”.

So bene che qualcuno scuoterà il capo e ripeterà che la narrativa non ha missioni che non si esauriscano in se stessa, e che l’unico scopo che può darsi è quello di offrire a chi legge il tempo dello svago. Penso che sia giusto, certo. Ma penso anche che ritenere di non essere immersi nel proprio tempo, e di raccontare storie che del tempo non risentano, sia un’illusione.
Come scrive Wu Ming 4 nel suo bellissimo commento al post di ieri:
“è nostro compito usare tutto il coraggio, la forza e l’intelligenza di cui possiamo disporre.
E questo vale tanto più per chi con la circolazione di parole scritte ci vive. Responsabilità degli scrittori. Vero, cara Lara. O più semplicemente “etica”. Ciò che il più prossimo discendente letterario di Gandalf, vale a dire Albus Silente, definirebbe la capacità di scegliere tra la via facile e quella giusta. Quest’ultima è quella che non bisognerebbe mai stancarsi di cercare, suppongo. Perché quando ti stufi e preferisci pensare che sia meglio annihilire l’altro, farla finita con un bel gesto catartico e risolutivo, come tirare l’atomica su Hiroshima, bombardare Dresda, fare un pogrom, fare affondare la gente in mezzo al mare, farla saltare in aria o sparare ad altezza d’uomo in mezzo alla folla, allora stai già lavorando per Sauron (o per il suo giovane adepto Voldemort, che dir si voglia).
Se poi qualcuno crede che scrivere di (ultimi) elfi e di (ultimi) orchi non sia scrivere di tutto questo, evocare i fantasmi e i mostri che agitano il nostro come qualunque tempo, be’, temo che costui/ei abbia un grosso problema con quella cosa che chiamiamo letteratura.”

Tre passi nel delirio (virtuale e non)

luglio 25, 2011

Venerdì scorso, postando l’ultima delle riflessioni su Camus, contagio, rabbia, non avrei mai immaginato che sarebbero divenute l’ouverture teorica e letteraria alla cronaca. Alla tragedia della e nella cronaca. Ne ho discusso a lungo, su Facebook: una discussione complessa, animata e persino dolorosa, dal momento che mi è costata in termini di amicizie. Non poche. Però, penso sia stata e sia una discussione importante. Provo a riassumerla per punti, con la promessa di ampliarla nei prossimi giorni.
Tutto, come è intuibile, nasce dall’orrore di Oslo e di Utoya: e si dipana in questo modo.
La Waterloo del giornalismo.
Venerdì, tardo pomeriggio. Rientro a casa, accendo il computer e accendo, contemporaneamente, la televisione. Apertura del Tg3. La direttrice, Bianca Berlinguer, esordisce dicendo “Sono tornati. Il terrorismo internazionale è tornato”. Consulto il sito di Repubblica. La pista della jihad è quella data quasi per scontata. Ora, io non sono certo un’esperta in terrorismo: ma l’idea di un jihadista che compie una strage atroce, in un isolotto norvegese, mi ha richiamato alla mente più Columbine che Aldgate. Così, in rapida successione, mi sono collegata con il sito della Bbc e con quello del Guardian: su quest’ultimo venivano pubblicati aggiornamenti continui dalle agenzie di stampa norvegesi. Già all’ora del Tg3, la pista del terrorismo islamico veniva esclusa. Ho tenuto la televisione accesa fino alla fine di Linea Notte, sempre Tg3. A quell’ora, si sapeva già (nei siti d’informazione inglesi) che l’attentatore era norvegese e legato a gruppi di estrema destra (che dal 2009 crescono nei paesi scandinavi).  Alla fine di Linea Notte, quando era ormai già sabato e il mondo anglofono sapeva da parecchio, è stato detto che, appunto “forse” l’Islam non c’entrava nulla.
Tardi, per alcuni giornali. La mattina dopo, “Il Giornale” usciva con una doppia prima pagina, incluso articolo furibondo contro il pericolo islamico.
Come reagisce Facebook? In parte, allo stesso modo de “Il Giornale”. Rabbia, furia, uccideteli, Pisapia gli costruisce le moschee a questi maiali.  Una scrittrice fantasy, dal suo blog, usa le stesse parole del killer norvegese. Le stesse. La nostra civiltà è in pericolo. Per colpa dell’Islam la civiltà cristiana verrà annientata. E anche se non è stato l’Islam a uccidere cento persone in Norvegia, fa niente: è colpa loro ugualmente. Di qui, il punto due.
La responsabilità degli scrittori
E’ la seconda riflessione, più controversa, che ho lanciato su Facebook. Cosa mai avranno a che fare, gli scrittori, con quanto è avvenuto? Molto poco, direi, a dispetto della frenesia con cui i giornali hanno frugato nella libreria dell’attentatore per comprenderne le letture (di cui al punto tre). Ma proprio il blog di quella scrittrice, che mi agghiaccia non da oggi, mi ha fatto pensare. E anche discutere animatamente. A me, come ho detto altre volte, l’idea che la stessa scrittrice che incita alla guerra santa vada a parlare nelle scuole medie a bambini di undici anni fa venire i brividi. Per altri, impedirlo sarebbe censura, o limitazione della libertà di opinione. Mi chiedo dunque: qual è il discrimine? Non sto parlando dei suoi libri: tutti i libri devono circolare liberamente. Sto parlando della possibilità che una persona che usa la stessa violenza verbale, in peggio, dell’ultima Oriana Fallaci, abbia come interlocutori dei bambini. Mi rendo conto di essere in minoranza, e mi tengo il dubbio. E tu, che sei estremista nel tuo blog?, mi è stato detto in pubblico e privato. Posso solo dire che su questo blog ho semmai parlato di fatti che riguardano la storia del nostro paese: nel caso della Scuola Diaz, a cui si riferisce l’ultimo post, citando testimonianze fatte nel corso di interrogatori. E dopo una sentenza di secondo grado che conferma quel che è avvenuto dieci anni fa a Genova.
Se io, da questo blog, incitassi alla violenza, dovreste segnalarmi. Se io, dalla mia pagina Facebook, incitassi a gettare bombe su chi, sabato, manifestava pacificamente a Genova, dovreste denunciarmi. E’ censura? E’ limite alla libertà d’opinione? Io penso di no. Penso che ci sia una gigantesca confusione, un enorme irrisolto, su cosa significhi democrazia. E, a proposito di confusione, il punto tre.
Fascisti su Mordor
Tolkien. Non ho ben capito da dove sia venuta fuori la notizia, dal momento che molti articoli sostenevano che Breivik, il killer norvegese, leggesse Kafka. Ma qualcuno, su Facebook, ha pensato bene di tirare fuori Tolkien, magari per regolare vecchi conti. Tolkien genera mostri? Naturalmente no. Ma il Tolkien malinteso esiste, anche fra i suoi lettori (per inciso, date un’occhiata a quanto scrive Wu Ming 4, e leggete i suoi saggi e romanzi su Tolkien, per cercare di capire meglio). Ed esiste, ancora oggi, nel vasto mondo della lettura (e, ahinoi, dell’insegnamento) chi identifica il fantastico con la destra. Alt. Non parlo della destra partitica. Parlo del pensiero e della cultura di destra. Fantasy=conservatori nostalgici che sognano di abbattere il Male con gli spadoni.  Chi legge questo blog sa che non è così. Ma siamo proprio sicuri, noi che scriviamo e leggiamo fantastico, di poter e dover fare a meno di chi è ancora prigioniero dentro questo stereotipo?
Questa è la domanda.
Su tutto il resto, non ho le risposte, o almeno non risolutive. Se non vi dispiace, concludo ancora con Camus. E con una delle sue frasi che amo di più: “le grandi idee arrivano nel mondo con la dolcezza delle colombe”. La forza della Norvegia, in questi giorni, è stata in questo pensiero: a dispetto di chi, sui social network e in rete, continua ad accendere roghi virtuali per bruciare interi popoli.

 

Il bacillo della peste non muore né scompare mai

luglio 22, 2011

Come lo avrebbe raccontato Camus? Avrebbe parlato, come ha fatto nel suo romanzo, della peste che sveglia i suoi topi per farli  irrompere in una città innocente, inondandola di sangue? Non è possibile saperlo. Per una volta, credo, le parole degli scrittori non sono sufficienti, o necessarie.
Bastano queste.
E questo.

Appestati o esiliati

luglio 21, 2011

La peste colpisce Tebe per l’incolpevole peccato di Edipo. Captain Trips uccide la maggior parte dell’umanità, ne L’ombra dello scorpione, per l’ambizione di un gruppo di militari e scienziati. La pestilenza di Orano, raccontata da Camus, è qualcosa di diverso e non si lega a una colpa, ma alla condizione umana.
Nel racconto dell’epidemia, che è quello che mi interessa in Tanit, è questo punto a essere, per me, centrale.
Ecco cosa scrive Camus:

“So soltanto che bisogna fare quello che occorre per non essere più un appestato, e che questo soltanto ci può far sperare nella pace, o, al suo posto, in una buona morte. Questo può dar sollievo agli uomini e, se non salvarli, almeno fargli il minor male possibile e persino, talvolta, un po’ di bene. E per questo ho deciso di rifiutare tutto ciò che, da vicino o da lontano, per buone o cattive ragioni, faccia morire o giustifichi che si faccia morire. […] Di qui, so che io non valgo più nulla per questo mondo, e che dal momento in cui ho rinunciato ad uccidere mi sono condannato ad un definitivo esilio. Saranno gli altri a fare la storia. So, inoltre, che non posso giudicare questi altri. […] Di conseguenza, ho detto che ci sono flagelli e vittime, e nient’altro. Se, dicendo questo, divento flagello io stesso, almeno non lo è col mio consenso. Cerco di essere un assassino innocente; lei vede che non è una grande ambizione. “.

Sotto un cielo corrotto

luglio 20, 2011

Un’epidemia – sia essa fisica o economica o sociale – inizia quasi sempre in modo sommesso.
Nella luminosa città di Orano, inizia con i ratti che vengono allo scoperto, per  morire fra gli uomini dopo aver barcollato, storditi, sotto il sole.  Inizia con il senso di colpa di un portinaio, Michel, che attribuisce a se stesso la responsabilità di quella strana invasione. Avrà tralasciato di pulire fino in fondo la casa che gli è affidata? Qualche ragazzo gli starà giocando un brutto tiro? Qualcuno lo accuserà di essere stato inefficiente? Tenendo per la coda un ratto morto, Michel si chiede tutto questo. Sarà il primo a morire, in quel romanzo meraviglioso che è La peste di Albert Camus.
Naturalmente, Camus non parla semplicemente del contagio fisico, anche se raccoglie l’eco tenebrosa dei narratori del passato.  La peste di Atene, raccontata da Tucidide  e Lucrezio (” Né importa se noi stessi andiamo in luoghi a noi avversi e passiamo sotto il mantello di un altro cielo, o la natura spontaneamente porta a noi un cielo corrotto o qualcosa con cui non siamo avvezzi ad aver contatto, che può colpirci con l’arrivare improvviso”), la Morte Nera che decimò Venezia, le torce che cercavano di purificare l’aria di Londra.
La peste che colpisce Orano e i suoi abitanti dagli abiti chiari distrugge l’innocenza di chi si sente al di fuori di ogni possibile giudizio. Ognuno può essere il portatore del contagio. Chiunque è sospetto. Chiunque è colpevole. E nessuno può illudersi sul fatto che non durerà.
Camus scrive: “Quando scoppia una guerra, la gente dice: “Non durerà, è cosa troppo stupida”. E non vi è dubbio che una guerra sia davvero troppo stupida, ma questo non le impedisce di durare”.
Qualcosa che ci viene ripetuto anche in questi giorni, in effetti. Non durerà. Eppure nulla impedisce che duri.

L’anno della rabbia

luglio 19, 2011

Nel settembre del 2008 uno dei giganti della finanza, la banca Lehman Brothers, annuncia il proprio fallimento: una catastrofe per l’economia mondiale. Da quel momento, la parola crisi viene pronunciata quasi quotidianamente, e in ogni parte del pianeta.
Qualcuno ne fa un’opera d’arte, come un regista italiano, Stefano Massini, che decide di trarne una trilogia teatrale. Altri hanno la reazione più ovvia: protestano, e protestano ovunque. Spulciando fra gli archivi, trovo la notizia di quei seicento risparmiatori di Singapore che si danno appuntamento a  Speakers’ corner, l’ unica piazza della città in cui è permesso riunirsi senza l’ autorizzazione governativa.  Trovo anche altro. Per esempio, la storia di una signora romana di 74 anni che decide di mettere all’asta se stessa, a piazza Verdi,  per recuperare i risparmi persi nel crollo delle borse. 14000 euro, per essere precisi.
Una crisi è fatta anche di questo: dolore, incertezza, paura, rabbia. Rabbia che non sfocia, però. Rabbia che serpeggiava da mesi, come un presagio, per le strade, negli autobus, nei negozi. Rabbia. Nei primi mesi di quel 2008 ricordo di averla respirata ogni giorno. I risparmiatori annientati dal crac Parmalat e quelli che, di lì a qualche mese, avrebbero ricevuto un colpo ulteriore dalla bancarotta di Lehmans Brothers, erano intrappolati nell’incertezza. Di colpo (anche se nulla avviene di colpo, naturalmente) ogni fiducia nel futuro sembrava venir meno.
La reazione? Quasi nulla. Solo il montare di un’onda densa come miele nero.
Un’onda che si infrange sulla riva, e che non lascia tracce, però.

Comunicazione di servizio

luglio 18, 2011

Solo per informare, e senza alcuna intenzione di fare polemica.
Avevo dato la mia disponibilità, molti mesi fa, a far parte di una giuria per il concorso “Tessisogni”. Ora, è stata data comunicazione in rete che, per questioni interne – che non mi interessano – a Writer’s Dream e Scrittevolmente, la giuria (oltre alla sottoscritta, nel comunicato si fanno i nomi di Moony Witcher e Laura Schirru) non è più disponibile.
Per correttezza, informo gli interessati che la decisione non è della giuria stessa ma di una (non voglio sapere quale) delle parti in causa, che ha informato la giuria a cose fatte (non voglio sapere perchè) e dopo la diffusione pubblica di quanto avvenuto.
Trovo, altresì, scorretto e poco professionale il procedimento, da qualunque parte sia stato avviato. Per quanto riguarda i partecipanti, esprimo il mio dispiacere: far parte di una giuria letteraria, a titolo gratuito, era per me un motivo di interesse e curiosità nei confronti della scrittura.
Sono, se vale qualcosa, solidale con chi ha scritto o stava scrivendo per il concorso, e mi auguro che ci siano, per i concorrenti, altre possibilità.