Io stavo pensando una cosa.
Che nelle mie storie, le due concluse e quella appena cominciata, ci sono un bel po’ di donne fetenti. Non “villain” nel senso stretto del termine, non precisamente antagoniste. Certamente, non innocue. Altrettanto certamente, non “cattive” nel senso classico del termine.
Pensavo alla Sensei. Qualcuno l’ha amata, si è identificato con lei nonostante la sua follia. Altri l’hanno odiata fino a desiderare di ucciderla. Non so quanto sia frequente che un narratore parli del suo rapporto con i personaggi, ma lo dico: io l’ho sentita, sempre, molto vicina. Nella tristezza che viene prima di ogni suo atto. Nella consapevolezza di aver investito su qualcosa che, alla fine, non valeva la vita che ha sacrificato. Nel desiderio impossibile in cui brucia, perfettamente conscia dell’utopia, eppure determinata a realizzarla lo stesso.
Pensavo ad Alice. Lo so che appare di sfuggita, in Esbat e in Sopdet. Alice è la madre di Ivy. Una madre odiosa, distratta, egocentrica, disperatamente ancorata a se stessa. Ma anche in questo caso ho pensato alla sua tristezza e al dolore per un fallimento. Non riesco a detestarla.
La dea. Molto più difficile, anche per chi l’ha creata, ragionare in termini umani su di lei. E’ tremenda, capricciosa, mortale. Eppure, non riesco a sentirla come mostro.
E di qui la meditazione del mattino.
Da dove vengono, i mostri che narriamo? Facile, la so: da noi.
Però la seconda domanda è più difficile: perchè le donne scrivono poco di donne “villain”? Perchè abbiamo paura di schiudere la porticina o perchè ci immaginiamo, sempre e comunque, nei panni di Bella Swan?
(forse è meglio che scriva di più e pensi di meno, eh)