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Tutte le storie di Sopdet. 1

marzo 17, 2011

In attesa che vengano postati tutti i lavori del concorso  sul sito, comincio io, un poco alla volta.

La fanart di Ippartist
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Il video di Arcana Black

La fan fiction di Caska Langley, aka Eleonora Caruso

Qualcosa di blu.

 

Questa mattina, quando s’è alzata, ad Ivy è parso d’aver dormito cent’anni come le principesse. Ma nel momento in cui ha aperto gli occhi, ed è scivolata dall’incoscienza al primo strato di coscienza, ha saputo che no, lei non era una principessa, ne aveva solo il dolore alle ossa.

Forse una strega? si era chiesta, ma qualsiasi cosa significasse nel tempo di alzarsi a sedere quella domanda era già svanita, lasciandola ad osservazioni più concrete; il sole che entrava dalle ante chiuse, il caos che aveva lasciato ai piedi del letto, il pennino poggiato sullo straccetto con cui lo puliva, e che ne conservava le macchie di china come un test di Rorschach.

Che cosa vedi, Ivy?

Solo il ghigno di un demone.

S’era presa la testa tra le mani, lasciandosi immobile, come un globo di neve quando aspetti che la neve si depositi. Può volerci un po’. Poi aveva sentito la schiena farle male (sono tutte così umide, le torri?), un ambulante sotto la sua finestra proporre un prezzo speciale per limare dieci coltelli, e gli scampoli incerti del sogno (o dell’assenza del sogno?) erano spariti abbandonandola nella realtà, questa semplice e cruda realtà.

Si chiamava Ivy. Aveva quasi sedici anni. Non riusciva più a disegnare.

Era sveglia, ormai.

 

Adesso Ivy percorre lenta le vie del centro – quello che nelle guide turistiche definiscono ‘il centro’. L’iPod nelle orecchie è così alto che se chiudesse gli occhi potrebbe essere a casa, non farebbe alcuna differenza. La canzone le chiede: what do you plan to do with all your freedom?

Per adesso sta facendo questo: un giro in centro. Nient’altro che un giro in centro. Eppure abbassa l’iPod, perché ha l’impressione di potersi perdere qualcosa. Un bambino che fa cadere il suo cono per terra, proprio davanti alla gelateria, una famiglia inglese (o scozzese? Hanno la pelle rossa per il sole) che chiede informazioni in italiano stentato a un ragazzo svogliato, e dietro di loro, nello stesso momento, un maître elegante serve i tavoli esterni di un ristorante arroccato sulla salita.

E poi, davanti a lei come una sorpresa, la Fontana di Trevi.

Questa fontana che Ivy ha già visto un milione di volte, ma che solo oggi le pare di riconoscere nella sua grandezza, collocata nella storia che le appartiene.

Le vengono in mente i miti greci, l’unica cosa che ascoltava volentieri a scuola, e che erano storie. Storie di desiderio.

Ogni azione è mossa dal desiderio, anche questa. Ivy è qui perché ha desiderato il rumore, immergersi nella vita che ribolle e scoppietta, apparentemente insensata, sotto il sole cocente d’agosto. Coppie d’innamorati si autoscattano foto baciandosi, posti davanti a qualcosa che, è buffo, è sopravvissuto a chissà quante guerre, mentre il loro amore è possibile che non sopravvivrà nemmeno a un alito di vento. E il desiderio che ha formato questi amori non è forse nullo, quasi ridicolo, davanti al desiderio che ha costruito la Tour Eiffel, il Duomo di Milano, le piramidi? Eppure non si arrende, si rigenera. E Ivy scopre che il vociare dei turisti non è più solo un fastidio che copra il gorgoglio della fontana, ma ne è parte, è come se risuonassero.

Storie di desiderio.

Ha già compreso, lei, la reale portata del desiderio?

E’ almeno vicina a comprenderlo?

Non trova posto per sedersi, così Ivy si appoggia alla balaustra, e nota sotto di lei una ragazza che (com’è possibile?) disinteressata alla fontana, sta leggendo una rivista di moda (no, è possibile: l’ha fatto lei stessa tante volte). Una fitta la coglie tra il cuore e lo sterno: sua madre. Ne aveva a decine, di quelle riviste. Se Ivy fosse stata così, come la ragazza che ammicca dalla pubblicità del rossetto, sarebbero andate d’accordo? Si sarebbero dette le parole che ora le pesano come un sacco sulla coscienza, un sacco che non riesce nemmeno ad aprire? Il dolore, almeno quello, sarebbe defluito da lei spontaneo, anziché viziato dall’amarezza, dal rimpianto? E ancora – egoista che non è altro- si chiede: l’avrebbe voluto?

E’ questo l’aspetto che dovrebbe avere una donna?

Ma in fondo che diritto ha di parlarne, lei è stata superficiale quanto se non più di sua madre. E’ lei quella che si è lasciata soggiogare da un demone quando era ancora a due dimensioni, e che nel disegnarlo aveva posto cura maniacale in ogni dettaglio, rendendolo se possibile ancora più meraviglioso, sempre più simile alla sua fantasia, lui che nella mente possedeva una bellezza illimitata.

Eppure ecco che un pensiero scroscia in lei: la perfezione non è tutto. E’ dall’imperfezione che nasce una storia. Lei ne è la prova.

Ivy si toglie l’iPod. Così tante lingue, in così pochi metri.

Le storie cambiano, a seconda della lingua in cui vengono raccontate?

E se una storia si svolgesse in Africa, piuttosto che in Francia, in che cosa sarebbe diversa? In cosa rimarrebbe uguale?

Vuole disegnare, all’improvviso, anche se negli ultimi tempi si è soltanto rigirata il pennino tra le mani tremanti, e si è sporcata le dita di carboncino, trasportandosi il peso dell’album sul quale tracciava solo scarabocchi, oggi vuole disegnare. E pensa che se un Dio (o una Dea?)  volessero mostrarle l’umanità intera la porterebbero proprio qui, in quest’angolo di Roma, sotto questo sole d’agosto che le fa pizzicare il sudore sotto il cappello. Qui dove niente sta accadendo, ma tutto si sta svolgendo, senza contare ciò che è già successo. Così tante storie, e nessuno che possa narrarle.

O forse io posso?

Ivy tira fuori il blocco e pensa di disegnare la fontana (con qualcuno dentro? Qualcuno la cui bellezza non sfigurerebbe accanto a quella dei tritoni?), chiedendosi se il suo potere potrebbe cambiarla. Ma capisce di no e non perché questa sia la realtà, ma perché è qualcosa più grande di lei, più grande dell’umanità, perché è l’umanità. La storia più incredibile che sia mai stata scritta. Non il percorso di un Dio, e di quel che ha portato le sue mani a toccarla quasi con dolcezza. L’umanità. Questa cosa che a Ivy sembrava stupida e stantia. Questa cosa che adesso le pare più bella di quel Dio.

Sei stato un demone o un angelo, per me?

Ivy non può conoscere ogni storia, ogni pensiero. Misia forse sì. Misia avrebbe potuto. Misia ne avrebbe avute, di storie da raccontarle. Ma lei no, non può nemmeno avvicinarsi a concepire la vastità di un’idea, la forma reale di un concetto, le contraddizioni i desideri e gli sbagli di un essere umano, neanche del più pigro, neanche del più meschino. Eppure sente che forse non serve, perché tutto questo è già suo, convoglia nel suo ventre in una vita il cui concepimento fisico è solo l’ultimo passo.

Ivy capisce. Non disegna la fontana, ma le persone. Ogni singola persona.

What do you plan to do with all your freedom?

Farà questo: racconterà storie.

 

Adesso Ivy è davvero sveglia.