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Riempire gli spazi vuoti (come diceva Beckett)

agosto 30, 2011

Corsi, ricorsi, discussioni cicliche. Aprendo Facebook,  mi imbatto in uno status interessante di una bravissima scrittrice: non cito il nome perchè una bacheca  è comunque un luogo semi-privato. Ad ogni modo, si parla di letteratura e impegno civile, argomento ultradibattuto e di recente, dopo il caso TQ, di nuovo alla ribalta.
Serve che lo sia? Ho già scritto più volte che, per me, scrivere è comunque un gesto politico, nel senso più vasto del termine. Il che non significa, naturalmente, assolvere i testi vacillanti: scrivere un buon testo è sempre il requisito numero uno. In altre parole, se dichiararsi impegnati non salva un romanzo non valido, dichiararsi estranei da quanto accade attorno a noi è però una piccola bugia. E’, comunque, impossibile.
Come si sviluppa la discussione? Sostanzialmente, seguendo due ramificazioni. Da una parte, il gruppo del vituperio complottista, che sostiene che dichiararsi impegnati sia un modo per compiacere la cricca editoriale. Dall’altra, la schiera – più vasta – di chi sostiene che la letteratura sia astrazione dalla vita, e che l’artista sia libero di fare qualunque cosa desideri, perchè la letteratura è “altra cosa” (cosa, esattamente, non si sa).
Cosa mi colpisce nel dibattito? L’uso reiterato del termine artista (o, peggio: “sacerdote dell’arte”, e scritto senza il minimo umorismo), come se il solo gesto di posare le dita su una tastiera elevasse nel cielo delle muse il proprietario delle dita medesime. Segue professione di disprezzo per il volgo ignorante e per le ragazzine che non leggono Cioran ma chick lit (sempre colpa delle ragazze: interessante, no?).
Ora, se questa è la concezione della scrittura che va per la maggiore, si capisce perchè, in Italia, le narrazioni siano asfittiche, lo snobismo altissimo e l’influenza dei testi sul mondo reale minima.
E, no, altrove non è così.
Torno a leggere Ellison.