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Qualcosa di fragile, qualcosa di forte

marzo 14, 2011

Qualcuno già definisce anime belle quanto ipocrite chi si addolora per quanto accade in Giappone. Ma come, viene detto, con tutto quello che avviene nel mondo, e in Italia, e in Nordafrica? E’ vero, verissimo. Però, questa volta molti di noi hanno almeno un’altra motivazione per guardare con orrore (e una strana, masochistica fascinazione) le immagini delle onde che debordano dai muretti, invadono le strade, spezzano i tralicci della luce, diventano un immenso fiume fatto di acqua e automobili.
Amiamo quel paese. Ci ha donato storie meravigliose, ci ha permesso di incantarci e sognare con i romanzi, con i manga, con le decine di modi in cui si può raccontare di mostri e di sogni, di fato e di nostalgia. Alcuni di noi, e anche io, hanno narrato a propria volta ispirandosi alla grazia e alla rassegnazione che in molti di quei  racconti arrivavano fino a noi.  Qualcosa di così fragile e così forte che permette di intrecciare, ogni volta, la bellezza e la tenebra.
Questa è la storia delle isole che non torneranno più, letta su Repubblica. E racconta la bellezza, appunto, e la sua fine.  Quella che risuona anche nel nostro cuore.

“Lo tsunami dell’11 marzo passerà però alla storia per aver sottratto al mondo l’arcipelago di Matsushima Kaigan.
Erano 260 piccole isole, decine di penisole verdi tuffate nel Pacifico, tra gli scenari naturali più stupefacenti del Giappone. Rocce nere, torri di tufo, sabbia come neve, sorgenti di acqua bollente, borghi antici e una miriade di templi buddisti e scintoisti invasi dalla pace. Dalla costa oltre Sendai occorreva un’ora di barca per entrare nel paradiso delle scimmie e dei cervi, popolato di oltre duecentomila persone. Dalla terraferma non si scorgono più isole e i pescatori assicurano che l’arcipelago è stato sommerso. A Ishinomaki, sull’isola di Miyato, abitano 166 mila persone, di cui non si ha notizia. Metà della città risulta distrutta. I pescatori dell’isola di Kinkazan, il “fiore d’oro” dell’Honshu, non trovano più decine di altre isole, rimaste sotto il livello del mare. Il censimento del disastro è ostacolato dalla distruzione dei porti e di migliaia di imbarcazioni. L’arcipelago di Matsushima è totalmente isolato da venerdì e anche il laboratorio marino dell’università di Tuhoku, nella città di Onagawa, non dà segni di vita. Di certo la penisola di Ojika, l’isola di Oshima e Fukuura, si trovano oggi sotto il livello dell’acqua ed è impossibile sapere quanti siano riusciti a mettersi in salvo, come abbiano potuto riuscirci. Le isole hanno fatto da frangiflutti contro la forza del mare, proteggendo un tratto di terraferma, ma autocondannandosi a scomparire”.

Come sentirsi in colpa in quattro mosse

febbraio 27, 2009

Mossa numero uno. Scendo allegramente a prendere un vero caffè al bar.
Mossa numero due.  Compro il giornale.
Mossa numero tre. Accendo la prima sigaretta della giornata e mi incammino verso casa.
Mossa numero quattro. Leggo una  lettera su Repubblica che, per espiare, ricopio e posto.

Sono giapponese e studio italiano a Roma. Tante cose in Italia sono diverse da quelle in Giappone, perciò mi interessano molto. Ma solo una cosa è per me inaccessibile. Perché voi, gli italiani, buttate il mozzicone di sigaretta sulla strada? Di solito non spegnete il fuoco. Non ci posso credere. In Giappone ci sono tante persone a cui non piace il fumo, dicono che non si dovrebbe fumare per strada perché è pericoloso per i bambini. Anzi, non possono accettare che si butti il mozzicone, il cui fuoco non è spento. Ero sorpreso, quando ho capito che in Italia era normale buttarlo sulla strada. Nonostante io non fumi, mi piace l’odore di fumo. Però penso che sia un peccato che si debba vedere Roma così.

Mossa numero cinque. Salgo sei piani di scale con un mozzicone spento in mano, vergognandomi tanto, ma tanto, ma tanto.
Mi tuffo nell’editing.